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Storia

Una storia di magia nera

Giovanni Antonio Boccalaro di Caselle fu condannato a morte il 28 gennaio 1710 per avere attentato, mediante pratiche magiche, alla vita del sovrano, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia.

Torino

Torino, piazza delle Erbe (oggi piazza Palazzo di città) dove nel 1710 fu impiccato Giovanni Antonio Boccalaro di Caselle

Giovanni Antonio Boccalaro di Caselle fu condannato a morte il 28 gennaio 1710 per avere attentato, mediante pratiche magiche, alla vita del sovrano, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, l’eroe dell’assedio di Torino e della vittoria sui francesi. La sentenza venne eseguita due giorni nella capitale sabauda, in piazza delle Erbe (ora piazza Palazzo di Città). Sottoposto al supplizio delle tenaglie infuocate, il reo fu impiccato, poi appeso per un piede affinché tutti potessero vederlo, quindi squartato. «Riposta la testa sopra la colonna infame, li quarti fuori delle quattro porte di Torino, il rimanente del cadavere – si legge negli atti conservati presso l’Archivio di Stato del capoluogo piemontese – è stato abruggiato sopra detta piazza e sparse le ceneri al vento».

Riposta la testa sopra la colonna infame, li quarti fuori delle quattro porte di Torino, il rimanente del cadavere è stato abruggiato sopra detta piazza e sparse le ceneri al vento.

La vicenda di Giovanni Antonio Boccalaro, sarto, originario di Caselle ma residente a Salussola nel Biellese, detenuto nelle prigioni di Torino per concorso in omicidio, è rappresentativa della società di Antico regime. Tutto ebbe inizio quando alcuni carcerati accusarono Boccalaro di essere ricorso alla magia nera per provocare la morte del duca Vittorio Amedeo e godere del successivo indulto. Secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti, egli aveva cercato di fabbricare una statuetta di cera da utilizzare in uno speciale rito magico. Sennonché, durante un’ispezione carceraria, era stato costretto a far sparire ogni cosa per non essere scoperto.

Persistendo nei suoi propositi, il sarto aveva pensato di ricorrere a una bambola di stoffa. Dichiarò Carlo Alberto Barbero di Roccaverano, uno dei suoi compagni: «Voleva fare una statua di tela nuova, la quale avrebbe fatto lo stesso effetto come che fosse stata di cera, con la sola differenza che quella di cera la faceva bruggiare per mezzo di un bambace [dal piemontese “bambas”, stoppino] che gli metteva insieme con un ago, e quella di tela dopo averla battezzata e messa nell’acqua congiunta con qualche cosa d’altro che lui sapeva».

La sentenza di morte contro Giovanni Antonio Boccalaro

La scoperta della bambola, su indicazione degli stessi compagni di Boccalaro, diede inizio all’istruttoria per il processo. L’imputato respinse ogni addebito, cercando di dimostrare che i suoi accusatori erano animati dal proposito di mettersi in luce presso le autorità al fine di ottenere vantaggi personali, forse uno sconto di pena. La difesa osservò che Boccalaro, detenuto da oltre venti mesi, era una persona docile e inoffensiva. Ma fu tutto inutile. La scoperta del feticcio venne ritenuta la prova decisiva del maleficio ai danni di Vittorio Amedeo II. Dopo tre interrogatori durante i quali non cessò di proclamarsi innocente, il sarto fu condannato a una pena esemplare. «Abbiamo creduto – si legge nella motivazione della sentenza – non essere sufficiente, in queste circostanze, all’enormità del fatto, la pena della forca». Si trattava, infatti, di un delitto di lesa maestà, aggravato dal tentato ricorso alla magia nera.

Giovanni Antonio Boccalaro chiede perdono per i propri delitti

«Lo condanniamo – recita il testo della sentenza – a far una pubblica emenda con torchia accesa alla mano, scalzo et in camiggia, con chiamar perdono del mal esempio dato per sua scelleraggine et indi, precedente l’applicatione delle tenaglie infocate ne’ luoghi soliti, ad essere pubblicamente nella piazza dell’Herbe impiccato per la gola, sinché l’anima sia separata dal corpo, mandando che il corpo suo, fatto cadavere, debba mettersi in quarti. Quelli affiggere in luogo eminente alle quattro porte della città, et la testa sopra una colonna da ergersi all’infame sua memoria et de suoi figlioli. Gettarsi il restante del cadavere pubblicamente alle fiamme e spargere al vento le ceneri».

Colpevole o innocente, Giovanni Antonio Boccalaro salì sul patibolo il 30 gennaio 1710: non aveva ancora compiuto ventisette anni di età.

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