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Ruggeri contro Mannoia : il cantautore accusa l'artista di snaturare "Quello che le donne non dicono"

Il cambio del finale divide pubblico e critica. Ruggeri rivendica il significato originale: una canzone sulle speranze tradite, non un inno militante. E denuncia: «È una forzatura, non è nata così»

Ruggeri contro Mannoia

Ruggeri contro Mannoia : il cantautore accusa l'artista di snaturare "Quello che le donne non dicono"

Il dibattito era sopito da anni, custodito nella memoria collettiva come uno di quei capitoli chiusi della musica italiana che non chiedono revisioni. Ma bastano poche parole, un finale cambiato, e “Quello che le donne non dicono” torna ad agitare il panorama musicale. Questa volta non per celebrare l’ennesimo anniversario, ma perché Fiorella Mannoia ha deciso di modificare il finale della canzone. Una scelta che Enrico Ruggeri, autore del brano insieme a Luigi Schiavone, giudica senza mezzi termini un errore.

La polemica arriva sulle pagine del Corriere, dove Ruggeri si presenta come il custode del senso originario di quel pezzo, forse il più celebre della sua carriera d’autore. Nel brano, spiega, c’è una storia diversa da quella che oggi si vorrebbe leggere: «È un errore. Questa è una canzone sulle speranze disattese. Le donne ne parlano ai loro uomini: non sei più come all’inizio del nostro amore, torna a essere com’eri e ti diremo ancora un altro sì».

Il problema – secondo Ruggeri – non è il passare del tempo, né l’evoluzione dei linguaggi. È la lettura politica che si vorrebbe sovrapporre al testo, al punto da modificarlo retroattivamente. «Mi sembra una forzatura dettata dalla cultura woke», dice. Una critica che non riguarda solo la Mannoia, ma un clima culturale in cui – a suo dire – la musica deve piegarsi a interpretazioni rigide, moralistiche, che cancellano la complessità.

Ruggeri non nega l’evoluzione artistica della cantante, ma la mette in relazione con questo cambio: «Era molto più rock all’inizio, non conosceva mezzi termini. Si è raffinata dopo». Una frase che, letta oggi, suona come un parallelo tra “raffinatezza” e un maggiore allineamento al politicamente corretto. Una trasformazione che Ruggeri osserva con un misto di nostalgia e perplessità.

Eppure, quando il brano nacque, nessuno immaginava che quarant’anni dopo si sarebbe discusso del suo finale. Le candidate iniziali erano tre: Lena Biolcati, Fiordaliso e proprio Fiorella Mannoia. Ruggeri ricorda quei momenti senza rancori, quasi con gratitudine: insieme a Schiavone erano indecisi e fu il discografico Roberto Galanti – figura stimata e oggi scomparsa – a convincerli che la voce di Mannoia era quella giusta. Una scelta che allora parve naturale, una di quelle decisioni che sembrano destinate.

La canzone, del resto, è un pezzo di storia: racconta fragilità, attese, disillusioni, ma anche una forza femminile non gridata, intima, quotidiana. Un linguaggio lontano dagli slogan e dai proclami militanti. Ruggeri rivendica proprio questo: la canzone parla di relazioni, non di militanza. Di crepe nei legami, non di manifesti politici. E intercetta una domanda di autenticità che attraversa il pubblico da generazioni.

La scelta della Mannoia di cambiare il finale – un gesto che lei ha presentato come naturale evoluzione del proprio percorso – diventa così un caso emblematico della tensione tra libertà artistica e riscrittura dei significati. Cosa può cambiare un interprete in un brano che non ha scritto? E fino a che punto il clima culturale condiziona questo tipo di modifiche?

La risposta non è semplice, ma la frattura tra interprete e autore è evidente. Per Ruggeri la canzone nasce in un contesto preciso, con una filosofia precisa: il dialogo difficile, imperfetto, a volte doloroso tra uomini e donne. Un equilibrio che, secondo lui, non avrebbe bisogno di essere corretto per adattarsi ai tempi.

Ed è proprio questo a rendere la polemica significativa: siamo davanti a una riscrittura simbolica, più che musicale. Il brano diventa terreno di una battaglia culturale che supera la canzone stessa, toccando la tensione tra tradizione e modernità, tra femminismo storico e nuove sensibilità, tra il diritto di interpretare e il dovere di preservare.

E mentre il dibattito si infiamma, le parole di Ruggeri risuonano come un monito contro quella che considera un’ansia di riscrittura: la musica – dice in sostanza – è un luogo fragile, che vive anche delle sue imperfezioni. Cambiarla per adattarla ai tempi può sembrare un progresso, ma rischia di smarrire la verità che l’ha fatta nascere.

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