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Lo Stiletto di Clio
07 Ottobre 2024 - 07:00
Il sindaco Luigi Raspini di Settimo Torinese premia una giovane alunna
A cent’anni dalla sua tragica morte, l’onorevole Giacomo Matteotti continua a dividere la politica, non diversamente da quando era parlamentare. Quello che segue è il testo della commemorazione tenuta dall’autore di questa rubrica, giovedì 26 settembre, a Settimo Torinese, durante la seduta del consiglio comunale.
Nei mesi passati, un po’ dappertutto in Italia e all’estero, si è ricordato l’onorevole Giacomo Matteotti. Anche alla Camera dei deputati di cui egli fu un componente autorevole. A Settimo, lo scorso venerdì 13 settembre, la Sala Primo Levi della Biblioteca era gremita, con le persone in piedi, per una chiacchierata sul pensiero politico e sull’opera di Matteotti. Il che risulta confortante per far sì che la memoria del deputato polesano non si affievolisca, nella nostra città, col trascorrere inesorabile del tempo. Si è pure allestito una mostra di libri, opuscoli e documenti storici, alcuni dei quali molto rari. Grazie all’amministrazione comunale, infine, è uscito il volumetto «Corrispondenze» che evidenzia il particolare rapporto fra l’onorevole Matteotti e Settimo, abbinando la figura del deputato a quella di Luigi Raspini, sindaco per oltre diciassette anni. Vi si riproduce, fra l’altro, il testo della commemorazione che Raspini tenne il 10 giugno 1945, subito dopo la fine della guerra, a un mese e mezzo dalla ritrovata libertà, ricorrendo quel giorno il ventunesimo anniversario del rapimento e del brutale omicidio di Matteotti.
Il sindaco Raspini, nell’autunno del 1922, all’indomani della marcia su Roma, rischiò di fare la fine di Giacomo Matteotti: fu costretto a dimettersi con la violenza, fu sequestrato, deriso, offeso e manganellato. Caso unico nelle cronache della nostra città. Bruttissima pagina di storia che non fa onore a Settimo. Noi, oggi, in quest’aula, commemoriamo l’onorevole Matteotti, ma rendiamo altresì giustizia a Luigi Raspini, il sindaco che si sentiva molto vicino al deputato riformista, ne condivideva il pensiero politico e, pur finendo malconcio, gli toccò in sorte di essere più fortunato di lui.
All’onorevole Matteotti, nel maggio 1945, Settimo ha dedicato una strada centralissima e, sul finire del 1969, la seconda scuola media della città. In qualche modo, egli è un protagonista dei nostri spazi urbani.
Come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella, l’omicidio di Giacomo Matteotti costituì un micidiale attacco al Parlamento italiano e alle libertà per mano di un partito politico armato. Nella storia della nostra nazione, quell’assassinio segnò uno spartiacque, assumendo un’enorme valenza storica e simbolica. Col delitto Matteotti si passò, in Italia, da un governo autoritario a una vera dittatura.
Da troppo tempo, purtroppo, di Matteotti si tende a porre unicamente in evidenza che fu un antifascista severo e implacabile, la vittima di un orrendo delitto. Non c’è dubbio: Matteotti fu un antifascista combattivo e inflessibile. Appartenne all’ala moderata o gradualista del Partito socialista. Fu un personaggio scomodo a destra, al centro e a sinistra. Dal suo partito a guida massimalista venne espulso nell’ottobre 1922 e diventò segretario di una nuova forza politica, il Psu, Partito socialista unitario, al quale anche Luigi Raspini aderì senza incertezze.
A differenza dei massimalisti e dei comunisti, i riformisti rifiutavano la rivoluzione e la violenza quale mezzo per giungere al potere. Inoltre erano disponibili a collaborare con la borghesia più illuminata affinché si approvassero leggi a vantaggio delle classi lavoratrici. Per tali motivi, Matteotti, segretario del partito riformista, non fu amato a sinistra. Noi – diceva – siamo a favore delle libertà per tutti. Non siamo per una dittatura di matrice fascista e neppure per le dittature di altro colore politico.
Nonostante le proprie posizioni moderate, Giacomo Matteotti colse la vera natura del fascismo e rifiutò, convintamente, di ricercare intese con Mussolini, mentre da più parti non pochi auspicavano di aprire un dialogo e di pervenire ad accordi e collaborazioni. Egli non manifestò mai alcun imbarazzo nel denunciare la carica eversiva e antidemocratica del regime che stava prendendo corpo. E i fascisti non gliela perdonarono. Tuttavia, se riducessimo il pensiero politico di Matteotti all’antifascismo, commetteremmo un grave errore di valutazione storica. Infatti il parlamentare riformista merita di essere ricordato per altre non meno significative ragioni, le quali rivelano una straordinaria attinenza col presente.
Innanzi tutto, all’inizio del Novecento, in un’epoca in cui le nazioni amavano sfoggiare i muscoli, Matteotti fu un antibellicista e un antimilitarista, convinto che le guerre non risolvono i problemi e ne creano di nuovi. Egli aveva sotto gli occhi la tragedia del primo conflitto mondiale che – affermava – non era stata né obbligatoria ossia necessaria né inevitabile.
Poniamoci dal punto di vista del deputato Matteotti. Che cosa produsse quella guerra? Fra i 15 e i 17 milioni di morti, 20 milioni di feriti e di mutilati, senza considerare i deceduti per l’epidemia di spagnola che si diffuse facilmente a causa della situazione bellica. Sono cifre impressionanti. Falcidiate intere classi di ragazzi e di giovani adulti. Spopolate le valli alpine italiane in maniera irreversibile: non si riprenderanno più. Però Matteotti era altresì contrario alla pace punitiva che i vincitori stavano ottusamente imponendo alla Germania, considerandola l’unica responsabile di quella guerra e della conseguente ecatombe. A dire il vero, le colpe erano della Germania e di tutte le altre nazioni europee. Addossare la responsabilità del conflitto a un’unica nazione fu un grave errore da cui si poteva prevedere, sin d’allora, che sarebbero derivate conseguenze terribili.
Dalla nostra posizione privilegiata di posteri, sappiamo bene com’è andata. Mi piace ricordare, in questa sede, che Giacomo Matteotti anticipò di mezzo secolo l’articolo 11 della nostra Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Matteotti fu un deciso oppositore di ogni nazionalismo. Il nazionalismo – sosteneva – origina il militarismo, e il militarismo genera inevitabilmente i conflitti. Matteotti fu un antesignano dell’europeismo. Egli reputava che gli Stati uniti d’Europa fossero la sola alternativa alla frammentazione nazionalistica, l’unica soluzione per evitare nuove guerre nel continente. L’europeismo costituì una sorta di evoluzione del suo pacifismo.
Potremmo discorrere a lungo del pensiero e dell’opera di Giacomo Matteotti. In questa sede, forse è opportuno porre in evidenza due ambiti d’interesse fra i più importanti: il Comune e la pubblica istruzione.
Per quanto concerne il Comune, la legge del tempo s’ispirava a una concezione patrimoniale della rappresentanza politica, consentendo di essere elettori ed eletti amministrativi in tutti i municipi dove si possedevano beni e si pagavano tasse comunali. Significa che era ammesso il voto pluricomunale. Dopo l’elezione in Parlamento, Matteottisi farà promotore di una legge per sopprimere quel privilegio che egli definiva ingiustificato. La legge, tuttavia, gli diede modo di essere, nel suo Polesine, contemporaneamente, consigliere (e persino assessore e sindaco) in più municipi. In quei municipi si rivelò un amministratore molto preparato, essendo un uomo di ampie letture e un brillante studioso del diritto e dell’economia.
Matteotti intendeva il Comune come un luogo di partecipazione, di consapevolezza civica e di elevazione delle masse. Il Comune – asseriva – non deve essere il luogo della burocrazia, essendo una sorta di grande società cooperativa della quale ogni cittadino è azionista.
Matteotti fu un severo amministratore pubblico, temuto dai sindaci e dai segretari comunali per lo scrupolo con cui seguiva la gestione dei municipi. Fu soprattutto un autorevole esperto in materia di finanza locale e tributi. Talvolta, a motivo del suo puntiglio, infastidiva gli stessi compagni di partito. Diceva: voi, consiglieri che venite dal popolo, manifestate un sacro terrore di concetti quali patrimoni, bilanci, conti residui, imposte e così via. Vi sembrano cose difficilissime, da demandare ai funzionari del Comune. Non è così: dovete convincervi che non si tratta di cose difficili purché siate disponibili ad applicarvi e a studiare. Quindi aggiungeva: siete contadini, operai… Conoscete l’uso di un aratro o di una macchina d’officina. Dovete mettervi in testa che occorre, per fare il consigliere comunale, conoscere alla perfezione il funzionamento della struttura municipale. E per conoscere il funzionamento della struttura municipale, dovete impegnare una parte del vostro tempo, cioè dovete studiare. Perché noi, consiglieri comunali, dobbiamo dimostrare che la proprietà pubblica può essere amministrata altrettanto bene e utilmente di quella privata. Era il 1920.
E veniamo alla scuola. Per Giacomo Matteotti, la scuola non poteva limitarsi ad avviare i ragazzi al processo produttivo, cioè al lavoro, ma era indispensabile che costituisse un’opportunità di formazione. L’istruzione pubblica doveva prioritariamente orientare e affinare, negli alunni, la capacità di riflettere, pensare e astrarre. Da uomo pratico, Matteotti s’interessò agli aspetti più concreti del problema: l’alfabetizzazione, la dispersione scolastica (come la chiamiamo oggi), l’edilizia, gli stipendi degli insegnanti, lo stanziamento di fondi pubblici, ecc.
La figura del deputato polesano non può ridursi alla dimensione di povera vittima. Matteotti non può costituire un semplice ricordo nostalgico, una sorta di santino laico. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti e non corrispondente al vero. E, allora, che cosa ha da dirci Matteotti, oggi? Che cosa può insegnare agli italiani e, soprattutto, alla politica, a cent’anni dalla sua tragica morte?
A mio parere, oggi, Matteotti ci insegna la coerenza negli ideali e nei valori. Tutta la sua attività pubblica fu improntata alla coerenza: non mutò mai bandiera. Il suo impegno di amministratore comunale e di parlamentare erano, per lui, un modo concreto per migliorare le condizioni di vita dei più svantaggiati. Il tutto in una prospettiva di trasformazione dello Stato.
Sorretto da solidi convincimenti etici e morali, Matteotti ci insegna il coraggio e l’onestà. A coloro che esercitano funzioni pubbliche insegna il valore della dignità, del rigore e della serietà. Insegna che l’obiettivo di ogni persona impegnata in politica non è la promozione di se stessi e della propria immagine. Matteotti era restio a mettersi in mostra. Né si prefisse mai di conseguire vantaggi o benefici per se stesso, i suoi famigliari e i suoi amici. L’unico suo obiettivo fu, sempre, coerentemente, il benessere dei cittadini, a cominciare dai meno favoriti.
A cent’anni dal suo assassinio, infine, Giacomo Matteotti ci insegna che dal male – dal fascismo come da ogni altro sistema autoritario o dittatoriale – non può mai derivare un bene: senza la libertà, senza la democrazia, non ci sono sviluppo e progresso. Non si tratta di una coincidenza che, un secolo fa, il crollo delle istituzioni democratiche, in un’Italia stritolata dalla violenza fascista, ma anche preda del malaffare, fu preceduto dal suo assassinio.
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