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Cronaca

Casinò di Saint-Vincent: cinque milioni di euro congelati, si indaga per riciclaggio

Il Riesame blinda i sequestri: le accuse di riciclaggio restano in piedi, così come quelle per fatture false e ricettazione

Casinò di Saint-Vincent: cinque milioni di euro congelati, si indaga per riciclaggio

Casinò di Saint-Vincent: cinque milioni di euro congelati, si indaga per riciclaggio

Il primo muro contro cui si infrange la difesa è quello del Tribunale del Riesame. E non è un dettaglio procedurale: è un segnale pesante, che rafforza l’impianto accusatorio e consolida l’idea che l’inchiesta sul Casinò di Saint-Vincent non sia una parentesi giudiziaria, ma il racconto di un sistema. I giudici di Aosta hanno respinto quasi tutti i ricorsi presentati dagli indagati contro il sequestro dei beni, lasciando congelati circa cinque milioni di euro ritenuti provento o strumento di un presunto giro di riciclaggio, fatture false e corruzione.

Solo alcune posizioni minori hanno ottenuto un alleggerimento. Per il resto, il quadro resta immutato: i sequestri reggono, l’indagine resta solida, e la sensazione è che i controlli interni del Casinò siano stati non semplicemente aggirati, ma svuotati dall’interno.

L’ordinanza di sequestro, eseguita nei giorni scorsi dalla Guardia di Finanza sotto il coordinamento della Procura di Aosta, riguarda 33 indagati. Le accuse sono pesanti: associazione per delinquere, riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, ricettazione, corruzione di incaricato di pubblico servizio. Al centro della rete, secondo gli inquirenti, due funzionari apicali del Casinò: Cristiano Sblendorio, direttore marketing, e Augusto Chasseur Vaser, responsabile dell’ufficio cambi e fidi. Due ruoli chiave, perché è lì che il denaro entra, cambia forma, rientra nel circuito.

L’ipotesi accusatoria è chiara e, col passare dei giorni, sempre più inquietante. Contanti di provenienza opaca arrivavano al Casinò, venivano convertiti in fiches in violazione delle norme antiriciclaggio, spesso senza adeguata tracciabilità, per poi tornare indietro sotto forma di bonifici “puliti”, simulando vincite al gioco. Un passaggio di stato che trasformava denaro irregolare in denaro apparentemente lecito. Non un errore occasionale, ma un meccanismo ripetuto, secondo la Procura, in diversi episodi distinti.

Tra i nomi che spiccano c’è anche quello di Aldo Spinelli, imprenditore genovese ed ex presidente del Genoa, già noto alle cronache giudiziarie. Per gli inquirenti, anche lui avrebbe sfruttato le falle del sistema per far transitare somme ingenti attraverso la casa da gioco valdostana. Il Riesame, respingendo i ricorsi, di fatto avalla l’idea che quelle falle non fossero casuali.

Ma il centro dell’inchiesta resta il nucleo piemontese del presunto sistema. Le indagini hanno ricostruito un flusso di fatture false per circa tre milioni di euro, generate da aziende radicate tra Torino, il Canavese e il Vercellese: Rigenera Italia di Tronzano Vercellese, Italfibre di Moncalieri, Metalfer di Volpiano. Secondo la Procura, quelle fatture servivano a creare liquidità “giustificata” solo sulla carta, poi trasformata in contante e fatta rientrare nel circuito grazie al passaggio al Casinò.

È qui che la vicenda smette di essere solo giudiziaria e diventa politica e strutturale. Perché, come hanno già scritto i giudici nelle prime ordinanze, il problema non è solo chi avrebbe approfittato del sistema, ma l’inefficacia dei controlli interni. In due anni, appena 130 segnalazioni di operazioni sospette: un numero considerato irrisorio per una casa da gioco di quelle dimensioni. Troppo poco per non destare allarme. Troppo poco per non far pensare che qualcuno, semplicemente, non volesse vedere.

Il rigetto dei ricorsi da parte del Riesame rafforza questa lettura. Non si tratta di una valutazione sul merito finale – quella spetterà al processo – ma di una conferma pesante sulla tenuta delle misure cautelari patrimoniali. Tradotto: per i giudici, ci sono elementi sufficienti per ritenere quei beni collegati ai reati ipotizzati.

Intanto, attorno al Casinò, il dibattito sulla privatizzazione si è praticamente dissolto. I sindacati, tradizionalmente divisi, oggi parlano con una voce sola: prima di discutere di futuro, bisogna capire che cosa non ha funzionato. La Regione Valle d’Aosta, azionista della società, ha fatto sapere di voler seguire con attenzione l’evoluzione dell’inchiesta, mentre il Casinò ha annunciato l’intenzione di costituirsi parte lesa. Una mossa che segna una distanza formale dagli indagati, ma che non cancella l’imbarazzo di un’azienda pubblica travolta da accuse così gravi.

I bilanci, paradossalmente, raccontano un’altra storia: ingressi in crescita, numeri positivi, un Billia che vola. Ma è proprio questo il cortocircuito più inquietante. Perché mentre la vetrina brillava, secondo l’accusa, nel retrobottega qualcuno apriva varchi. E quando il controllo diventa complicità, o peggio ancora abitudine, il danno non è solo economico: è una frattura di fiducia.

Con la decisione del Riesame, l’inchiesta entra in una fase ancora più delicata. I sequestri restano, le accuse tengono, e il messaggio è chiaro: non siamo davanti a un equivoco da chiarire in fretta, ma a un sistema da smontare pezzo per pezzo. Perché se il Casinò diventa una lavatrice di denaro, il problema non è chi ha giocato sporco. Il problema è chi ha lasciato che il tavolo restasse aperto.

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