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Riciclaggio al Casinò di Saint-Vincent: la mappa dei rapporti che ha fatto saltare i controlli

Tra dirigenti infedeli, aziende compiacenti e clienti privilegiati, l’indagine rivela un sistema che andava avanti da anni senza incepparsi

Riciclaggio al Casinò di Saint-Vincent: la mappa dei rapporti che ha fatto saltare i controlli

Riciclaggio al Casinò di Saint-Vincent: la mappa dei rapporti che ha fatto saltare i controlli

La maxi-inchiesta che travolge il Casinò di Saint-Vincent si presenta già per quello che è: non un incidente di percorso, ma una crepa strutturale. Trentatré indagati, due dirigenti ormai fuori dall’azienda, milioni in fatture false, un sistema che – secondo gli inquirenti – trasformava la casa da gioco in un convertitore automatico di denaro sporco. Di fronte a questo quadro, la vecchia idea della privatizzazione evapora all’istante: non per mancanza di volontà politica, ma perché nessuno, oggi, saprebbe spiegare come affidare ai privati ciò che il pubblico non riesce nemmeno a presidiare.

Il cuore dell’indagine è la coppia di funzionari accusati di essere “insiders infedeli”, Cristiano Sblendorio e Augusto Chasseur Vaser. Il primo, direttore marketing, con un raggio d’azione che includeva i clienti Vip e la gestione dei porteurs. Il secondo alla guida dell’ufficio assegni e fidi, cioè il luogo dove il denaro prende forma, cambia pelle e torna in circolo con una parvenza di legittimità. Secondo l’accusa, i due aprivano porte che avrebbero dovuto restare chiuse: fiches consegnate a fronte di contanti non tracciati, bonifici spacciati per vincite, autorizzazioni concesse con una leggerezza che, letta oggi nei documenti dell’inchiesta, suona inquietante.

Al centro della rete c’è Massimo Martini, imprenditore e giocatore definito “cliente Vip”. Per l’accusa, è lui il perno che collega le aziende coinvolte nel flusso di fatture false al meccanismo di riciclo dentro il Casinò. Un sistema tanto semplice quanto efficace: denaro irregolare che diventa fiches, qualche giocata simulata, poi il ritorno alla cassa per trasformare tutto in bonifici “puliti”. Un gioco di prestigio dove il trucco non lo vede chi non vuole guardarlo. E dove gli allarmi interni, secondo il Gip, restano inspiegabilmente muti: appena 130 segnalazioni sospette in due anni, un numero giudicato irrisorio per una struttura di queste dimensioni.

La politica osserva con irritazione crescente. Il danno d’immagine è enorme, e qualcuno teme che questa vicenda possa aprire corridoi ad altre presenze: non solo malaffare, ma mafie in cerca di spazi nei luoghi dove il denaro passa veloce e le verifiche rallentano. I sindacati, solitamente divisi sulla privatizzazione, oggi parlano quasi all’unisono. «Mi domando il motivo di dare un’azienda ai privati quando il pubblico può guadagnare» attacca Tino Mandricardi (Uil) sul quotidiano La Stampa, che però mette sul tavolo il punto cruciale: «Ma davvero questi controlli funzionano?». Barbara Capelli (Cgil), sempre su La Stampa, va oltre: «È una roba enorme. Temo sia la punta dell’iceberg». E Dondeynaz (Cisl) chiude il cerchio sempre su Stampa: «Dopo tutto ciò non penso che la privatizzazione possa essere all’ordine del giorno».

In mezzo a questo terremoto, i numeri della società raccontano una storia diversa, quasi un ossimoro. Bilanci in crescita, ingressi in aumento, un Billia che vola. È la fotografia di un’azienda che, sul piano economico, stava correndo, mentre nel retrobottega qualcuno apriva falle che nessun rendiconto può sanare.

Ora la Regione rivuole il quadro completo e la casa da gioco assicura di aver sempre agito secondo le norme antiriciclaggio, dichiarando di volersi costituire parte lesa. Ma l’inchiesta, già imponente, sembra solo agli inizi. Perché quando un giudice parla di “assoluta inefficacia dei sistemi di controllo”, non sta descrivendo un errore: sta certificando una vulnerabilità strutturale. E il problema, a quel punto, non è più capire se privatizzare o non privatizzare. È capire come si è potuto arrivare fin qui, e chi, lungo la strada, ha scelto di non vedere.

Il Casinò di Saint-Vincent ha sempre vissuto di sospensioni, luci soffuse e promesse di fortuna. Ma qui il gioco non è stato truccato al tavolo: è stato truccato nei corridoi. E la partita, stavolta, la giocano la Guardia di Finanza e la Procura. Il “rien ne va plus” è arrivato davvero.

Le figure chiave

L’inchiesta che scuote il Casinò de la Vallée ruota attorno a un nucleo preciso di persone: funzionari interni, imprenditori, figure che per anni hanno orbitato attorno ai tavoli verdi con ruoli diversi ma, secondo l’accusa, con un obiettivo comune. Non un riciclo artigianale, ma un sistema strutturato, fatto di favori, omissioni e denaro che cambiava pelle dentro la casa da gioco.

I nomi che emergono con più forza sono quelli di Cristiano Sblendorio, 59 anni, originario di Quart, e Augusto Chasseur Vaser, 51 anni, di Arnad. 

Sblendorio, direttore marketing, era l’uomo dei clienti più importanti, il gestore delle relazioni Vip, il punto di snodo tra la casa da gioco e chi muove cifre considerevoli. Un ruolo strategico, perché dalla valutazione della clientela passa una parte della sicurezza economica del Casinò. L’accusa sostiene che proprio in questa area di discrezionalità Sblendorio avrebbe agevolato operazioni di cambio denaro non tracciate, alterazioni di conteggi e procedure pensate per rendere fluido un flusso di denaro che fluido non doveva essere.

Chasseur Vaser, responsabile dell’ufficio assegni e fidi, occupava invece il posto dove il denaro si trasforma: lì entrano contanti, assegni, richieste di scoperto; da lì escono fiches e bonifici formalmente legittimi. Per la Procura, è lui ad aver favorito passaggi di somme ingenti senza gli adeguati controlli, consentendo a clienti selezionati di ottenere fiches in cambio di contanti con una libertà incompatibile con le norme antiriciclaggio. È un ruolo che richiede rigore assoluto, perché ogni anomalia diventa un varco: secondo gli atti, proprio da quei varchi sarebbe transitata una parte consistente del meccanismo di riciclo.

Attorno ai due funzionari gravitano gli imprenditori coinvolti nel presunto sistema di false fatturazioni.

Tra questi spicca Massimo Martini, classe 1972, cuneese, figura chiave secondo l’impianto accusatorio. Non un semplice giocatore, ma l’uomo ritenuto in grado di collegare il mondo delle aziende che emettevano fatture inesistenti con il Casinò, dove quel denaro – una volta trasformato in fiches e poi di nuovo in bonifici – tornava alla luce con un’origine formalmente lecita. La sua presenza continua nella casa da gioco, unita a un’esposizione finanziaria rilevante, avrebbe dovuto attivare più di un meccanismo di allerta. E invece, sempre secondo gli inquirenti, il sistema interno non ha funzionato.

Gli imprenditori al centro del primo filone sono tutti radicati in Piemonte. Mariano Rossi, 57 anni, di San Mauro Torinese, è indicato come amministratore di fatto della Rigenera Italia di Tronzano Vercellese. Eligio Boscaro, 79 anni, di Vinovo, guida la Italfibre di Moncalieri. Riccardo Castagna, 55 anni, anche lui di Moncalieri, è il legale rappresentante della Metalfer di Volpiano.

Le loro aziende, secondo gli inquirenti, avrebbero generato un flusso di fatture false per circa tre milioni di euro, denaro poi convertito in fiches grazie alla collaborazione dei due dirigenti del Casinò. Un circuito che si sorreggeva su bonifici simulati, contanti che rientravano come vincite, giri apparentemente banali ma perfetti per chi cerca di ripulire.

In un filone parallelo dell’inchiesta entra anche Aldo Spinelli, 85 anni, ex presidente del Genoa. La Procura gli contesta di aver approfittato delle stesse falle del sistema, ottenendo fiches in quantità rilevanti per poi trasformarle in bonifici che simulavano vincite al gioco. La provenienza del denaro impiegato in questo circuito è ancora oggetto di accertamento. Ma il quadro che emerge è quello di un Casinò attraversato da due mondi: quello ufficiale, fatto di ingressi, bilanci positivi e numeri in crescita; e quello parallelo, dove – secondo l’accusa – circolavano denaro contante, favori ai clienti e decisioni prese con una discrezionalità incompatibile con una società pubblica.

Il punto su cui si concentrano ora gli investigatori non è soltanto stabilire ruoli e responsabilità penali, ma capire come sia stato possibile che un meccanismo così articolato abbia funzionato così a lungo senza incepparsi. Perché una casa da gioco può essere attraversata da mille tentativi di aggirare le regole, ma il ruolo dei funzionari è costruito proprio per impedirli. Invece, qui, è la tesi della Procura, sarebbero stati due uomini dell’organizzazione a spalancare la porta.

Il danno, anche prima delle sentenze, è già tutto nella perdita di fiducia. Perché se il Casinò diventa un posto dove il controllo non controlla e la vigilanza non vigila, allora il problema non è solo giudiziario: è culturale, politico, strutturale. Una ferita che non si rimargina con un comunicato, e che oggi rende ancora più urgente capire chi sapeva, chi non ha voluto vedere, chi avrebbe dovuto intervenire. Perché gli indagati sono trentatré, ma la domanda vera è un’altra: quanti, in questi anni, hanno creduto davvero che andasse tutto bene?

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