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Cronaca

Minacce al primario dopo la morte del compagno: la storia giudiziaria di Viviana Pinto

Una donna in preda allo shock entra armata in reparto, grida contro i medici e finisce a processo: ora arriva la condanna, molto più lieve della richiesta della Procura

Minacce al primario

Minacce al primario dopo la morte del compagno: la storia giudiziaria di Viviana Pinto

La notte in cui il suo compagno è morto per overdose, qualcosa in Viviana Pinto, 42 anni, è crollato di colpo. Non un cedimento silenzioso, non un dolore che si chiude dentro una stanza d’ospedale, ma un’esplosione improvvisa, violenta, che quella sera di aprile ha travolto il Maggiore di Chieri trasformando un reparto di terapia intensiva in un luogo di paura. L’uomo che la donna amava, Roberto Noto, era stato appena dichiarato morto pochi minuti prima. Lei aveva bevuto, era agitata, confusa, e quando un medico le ha comunicato il decesso, l’equilibrio già precario si è spezzato del tutto. È entrata in reparto armata di un coltello e ha gridato: «Ti ammazzo. Tu non sai con chi hai a che fare». Frasi scandite con rabbia feroce, che hanno fatto temere il peggio.

Oggi, a distanza di mesi, quel gesto è passato al vaglio della giustizia. Il tribunale di Torino ha deciso di condannarla a 9 mesi, riconoscendo minacce aggravate e non tentato omicidio, come invece sosteneva il pm Roberto Furlan, che aveva chiesto 7 anni di reclusione. Una differenza enorme, che cambia il volto del processo e del profilo giudiziario della donna. Il collegio presieduto dalla giudice Immacolata Iadeluca, con Federica Florio e Milena Lombardo a latere, ha impiegato circa un’ora di camera di consiglio per arrivare a quella decisione, mettendo al centro non solo le parole urlate quella sera, ma anche il contesto emotivo, la confusione, l’alcol e la dinamica di una relazione definita dalla difesa «tossica».

In aula Pinto ha provato a spiegarsi, con voce ancora scossa: «Mi sono arrabbiata dopo aver appreso che il mio compagno era morto. Avevo bevuto e mi è crollato il mondo addosso. Non avrei fatto male a nessuno». Parole che non cancellano le minacce, ma che hanno restituito ai giudici l’immagine di una donna smarrita, seguita dal Sert di Torino, con una storia personale complessa, precipitata nel suo momento più fragile.

Il pubblico ministero, per sostenere la tesi del tentato omicidio, aveva insistito su un punto: quel coltello, per lui, non era stato preso in un bar come sostenuto inizialmente. Ci sarebbe stato un ritorno a casa per procurarselo, un gesto che nella logica dell’accusa dimostrava intenzione e lucidità. Per rafforzare la propria lettura, Furlan aveva citato anche il manuale Mantovani, un classico del diritto penale, sostenendo l’improbabilità della versione offerta dalla donna. Ma alla fine la Corte ha scelto una strada diversa, ridimensionando l’impianto accusatorio.

La difesa, rappresentata dall’avvocato Domenico Peila, ha insistito sul caos emotivo di quel sabato sera. «Non è mai stato chiarito a chi fossero rivolte le accuse della donna, né se quelle minacce fossero indirizzate al primario, ad altri operatori o addirittura a sé stessa», ha sottolineato nel corso della sua arringa. Ha ricordato inoltre che la sua assistita aveva già trascorso sei mesi ai domiciliari e che il suo gesto andava collocato dentro un dolore improvviso, devastante. Al centro della linea difensiva non c’era l’assoluzione da un comportamento pericoloso – nessuno ha mai negato la gravità dell’episodio – ma la necessità di riconoscere la sproporzione tra i fatti e l’accusa di tentato omicidio.

In quelle stesse ore, mentre la macchina della giustizia iniziava a muoversi, dall’altra parte dell’aula c’era il medico coinvolto, il primario Stefano Meinardi, direttore della Struttura Semplice di Terapia Intensiva dell’ospedale. Non si è costituito parte civile. Ha scelto invece di presentarsi come testimone del pm, per spiegare cosa fosse accaduto e soprattutto per chiarire uno dei punti su cui Pinto aveva polemizzato: il modo in cui le era stato comunicato il peggioramento clinico del compagno. «Comprendo il momento di sconforto che la signora ha vissuto», ha detto il primario. «Chiedo solo rispetto per le istituzioni. Siamo una struttura pubblica e cerchiamo di curare tutti».

Meinardi ha raccontato anche un dettaglio rivelatore della tensione di quella sera: aveva richiamato Pinto poco prima del decesso dell’uomo. La terapia intensiva, ha ricordato, «è un luogo aperto, ma molti parenti fanno fatica a comprendere l’estrema criticità del quadro clinico». È stato in quei minuti concitati che si è consumato il cortocircuito emotivo che ha trasformato il dolore in minaccia. Non è stato un passaggio facile né per gli operatori, né per la donna che, ancora oggi, appare sopraffatta dal senso di colpa e dalla disorientante miscela di affetto, dipendenza e confusione che caratterizzava la sua relazione con Noto.

Ed è proprio questo il nodo che la difesa ha cercato di mettere al centro: non un gesto premeditato, ma la reazione di una persona fragile davanti alla notizia più devastante della sua vita. «Le era venuto a mancare un affetto, sebbene si trattasse di una relazione tossica», ha ricordato l’avvocato Peila, sottolineando come il rapporto tra i due fosse segnato da dipendenze, instabilità e una quotidianità già compromessa.

Da parte sua, la Corte ha scelto una posizione intermedia: ha ritenuto le minacce reali, dirette e aggravate, ma non ha ravvisato gli elementi necessari a sostenere il tentato omicidio. Una decisione che tiene insieme gravità del gesto e fragilità della protagonista, senza negare né l’una né l’altra.

Il processo lascia comunque aperte molte domande: cosa accade quando un reparto ospedaliero diventa lo scenario di un crollo emotivo così violento? Quanto il personale medico può – e deve – reggere il peso delle comunicazioni più difficili, sapendo che dall’altra parte c’è chi vive in condizioni psicologiche limite? È proprio in questi casi che emerge la complessità del lavoro sanitario, spesso chiamato a farsi carico non solo delle cure, ma anche delle reazioni di chi, all’improvviso, rimane solo con un lutto impossibile da accettare.

In questa storia, però, c’è anche un elemento che torna più volte nelle parole dei protagonisti: nessuno ha mai parlato di odio. Nemmeno il primario, che avrebbe potuto chiedere risarcimenti, ha scelto di farsi parte civile. Una scelta che rivela la consapevolezza di trovarsi davanti non a una criminale, ma a una persona sospinta oltre il limite dal dolore e dalla dipendenza. Pinto, infatti, era seguita dal Sert, e la sua vita – come quella del compagno – aveva un equilibrio già molto fragile. La morte di Noto ha spezzato ciò che restava.

Ora resta una condanna lieve rispetto all’impianto iniziale, ma comunque significativa. E resta una vicenda che, pur nella sua drammaticità, racconta molto più di un gesto folle: racconta l’incrocio tra vulnerabilità, dipendenza, sofferenza e istituzioni chiamate a reggere l’urto di situazioni limite.

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