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Cronaca

Infermiere aggredito nel carcere di Biella: scatta la denuncia dell’Opi

L’Ordine parla di violenza intollerabile e chiede misure urgenti per proteggere il personale sanitario in ambienti penitenziari

Infermiere aggredito nel carcere di Biella

Infermiere aggredito nel carcere di Biella: scatta la denuncia dell’Opi (foto di repertorio)

L’aggressione arriva da dentro il carcere di Biella e colpisce un infermiere in servizio. Un episodio rapido, violento, ingiustificabile. Un colpo che rompe il silenzio e riporta in primo piano una verità ignorata troppo a lungo: la sicurezza dei sanitari nelle strutture penitenziarie è un fronte esposto, fragile, scoperto. L’allarme lo lancia l’Opi, l’Ordine delle professioni infermieristiche, che sceglie di rendere pubblica la vicenda con una nota dai toni duri.

L’infermiere stava svolgendo attività di routine. Un intervento come tanti, uno di quelli che riempiono le giornate di chi lavora in un reparto dove la tensione non si spegne mai. Il gesto del detenuto è stato improvviso. Un attimo prima la normalità, quella normalità sempre sul filo, un attimo dopo il colpo che stravolge tutto. Nessuna dinamica dettagliata, nessuna ricostruzione ufficiale. Solo la certezza di un’aggressione che riapre una ferita già nota: chi lavora in carcere non è protetto a sufficienza.

Nella nota diffusa dall’Ordine emerge un quadro che parla da sé. Gli infermieri sono costretti a muoversi ogni giorno in spazi ristretti, sovraffollati, dominati da tensioni costanti. Gli ambienti penitenziari, scrive l’Opi, richiedono professionalità, sangue freddo, capacità di manovrare tra emergenze continue. «Gli infermieri operano quotidianamente in contesti complessi e ad alta tensione, garantendo il diritto alla salute anche in ambiti delicati come quello penitenziario».

Parole che non suonano come una descrizione, ma come un atto d’accusa contro anni di sottovalutazioni. La violenza, insiste l’Opi, non può essere normalizzata. E lo afferma in una delle frasi più nette della nota: «La violenza è sempre inaccettabile, ancor di più se rivolta a chi sta prestando delle cure; la violenza non può e non dovrebbe essere considerata un rischio insito nella professione infermieristica».

Una linea dura che non lascia spazio a interpretazioni. Chi aggredisce chi cura rompe un patto fondamentale e mette a rischio un intero sistema. Il carcere, in questo senso, è un amplificatore. Le tensioni, l’affollamento, la scarsità di personale, l’aumento di pazienti fragili: tutto concorre a rendere ogni turno una prova di resistenza.

L’Opi riconosce che l’Azienda sanitaria ha già avviato alcune azioni. Protocollo, formazione, percorsi di prevenzione. Ma non basta. Servono misure più forti, più veloci, più adatte a un contesto come quello penitenziario. Lo afferma chiaramente nel passaggio conclusivo del comunicato: «L’ordine è consapevole delle azioni già avviate dall’Azienda per contrastare la violenza nei confronti degli operatori sanitari e riconosce la specificità del contesto carcerario, ritenendo necessario un ulteriore rafforzamento delle misure di tutela».

È un messaggio diretto. Un invito, forse un ultimatum, a intervenire su un problema che non riguarda un singolo episodio ma un’intera categoria professionale. A Biella come altrove, gli infermieri in carcere vivono una quotidianità che alterna assistenza, controllo, emergenze e imprevedibilità. Turni pesanti, organici ridotti, pressioni crescenti. Un equilibrio sottile che può spezzarsi all’improvviso, come accaduto in questo caso.

La vicenda riapre un tema più grande: la salute in carcere non può esistere senza sicurezza. E la sicurezza non è un dettaglio, non è un accessorio del servizio sanitario. È una condizione indispensabile, senza la quale ogni cura diventa un rischio. L’aggressione di Biella diventa così un segnale d’allarme che non può essere ignorato. Il personale sanitario non può essere lasciato solo in un ambiente dove, per natura, la tensione può esplodere in qualsiasi momento.

La denuncia dell’Opi, con il suo linguaggio netto e privo di attenuanti, indica una strada chiara. Rafforzare le tutele, aggiornare i protocolli, investire nella formazione, garantire la presenza costante di personale di supporto. E soprattutto riconoscere che la violenza non fa parte del mestiere. Non deve farne parte. Non può farne parte.

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