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Cronaca

“Dottore” senza titoli e soldi spariti: dieci anni di false cure all’aloe

Dal camice bianco senza titolo alle «molecole killer» contro il cancro: la lunga vicenda giudiziaria del naturopata e del sistema di denaro contestato dalla Procura

“Dottore” senza titoli

“Dottore” senza titoli e soldi spariti: dieci anni di false cure all’aloe

Una storia che comincia in una piccola stanza affacciata su via Circonvallazione, a Pecetto, e si allunga per oltre dieci anni, travolgendo non solo un naturopata molto conosciuto in paese, ma anche la sorella, oggi imputata con lui per mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. Il protagonista è Gianfranco Lanza, 57 anni, volto storico dell’attività “Aloe Ghignone”, marchio creato dalla madre Ottavia e costruito negli anni su un mix di immagine, marketing aggressivo e promesse terapeutiche che la giustizia ha in più occasioni ritenuto infondate.

Tutto inizia nel 2011, quando una donna di 67 anni, angosciata per la malattia del figlio e desiderosa di trovare rimedi “naturali”, entra per la prima volta nell’ambulatorio di Lanza. Lui la accoglie in camice bianco, si fa chiamare “dottore”, pubblicizza una “aloe arborescens brasiliana” – che brasiliana non era – e attribuisce ai suoi preparati proprietà miracolistiche: dimagrimento rapido, effetti sulle dermatiti, sulla psoriasi, sulle artriti, sui dolori articolari. E, soprattutto, sulle patologie oncologiche. È l’Antitrust a certificare la gravità delle affermazioni: nelle comunicazioni commerciali Lanza parlava addirittura di una “molecola killer” capace di colpire le cellule tumorali e sosteneva che «un paziente oncologico ha un’aspettativa di vita decisamente inferiore se fa chemio senza aloe». Per questo il Garante gli infligge una sanzione.

La donna, colpita da quelle parole e dalla fragilità del momento, torna più volte. Compra flaconi e preparati “snelling”, consegna assegni da 4-5 mila euro per ciascun ciclo di prodotti. Non dimagrisce, non ottiene miglioramenti, non trova sollievo per il figlio. Alla fine, denuncia.

Il primo processo porta a una condanna: un anno e due mesi per truffa e frode alimentare. Ma nel 2020 la Corte d’Appello riduce tutto: truffa prescritta, frode confermata, pena abbassata a tre mesi. Una sentenza che, secondo i giudici, fotografa bene l’inganno: «Lanza si presentava come un medico e vendeva un prodotto diverso da quello promesso, e quando se ne è accorto non ha fatto nulla». Eppure, nonostante i procedimenti, l’attività riparte con un nuovo linguaggio: niente più sostanze “miracolose”, almeno nelle descrizioni pubbliche, ma un ventaglio di integratori “detox” che ripropongono, in forma più prudente, la stessa narrazione.

La donna, ormai decisa ad affrontare l’ultimo passaggio della vicenda, chiede il risarcimento: 18 mila euro. Ma la risposta, secondo la Procura, è un muro di carta. Lanza risulta nullatenente, almeno formalmente. La pm Fabiola D’Errico non si ferma alla superficie: accusa Lanza e la sorella Manuela di aver aperto un conto corrente intestato a lei, sul quale sarebbero confluiti i proventi dell’attività dell’uomo. Un espediente, sostiene l’accusa, per sottrarre denaro alle pretese della vittima e rendere inefficace il provvedimento del giudice.

Ora i due sono imputati per mancata esecuzione dolosa di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, un reato che completa un mosaico che la Procura ricostruisce come un sistema pensato per eludere responsabilità economiche e giudiziarie. Il processo è in corso e potrebbe rappresentare l’ultimo capitolo di una storia iniziata più di un decennio fa, tra promesse di guarigioni impossibili, illusioni costruite sul dolore e una lunga catena di atti giudiziari.

A Pecetto, intanto, la vicenda ha lasciato un segno profondo. Tra chi conosceva la famiglia, chi si è rivolto in passato allo studio e chi osserva la vicenda con crescente amarezza, il caso Lanza è diventato il simbolo di quanto fragile possa essere il confine tra cura alternativa e inganno, tra ricerca di benessere e abuso della credulità di chi soffre. E il tribunale, ora, è chiamato a dire l’ultima parola.

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