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“Cecchini del weekend”: i turisti della morte partivano anche dall’Italia per uccidere a Sarajevo

Dai voli charter ai pagamenti in contanti: la Procura di Milano riapre il dossier sugli italiani coinvolti nei massacri

Cecchino, foto di repertorio

Cecchino, foto di repertorio

Nel cuore degli anni Novanta, mentre Sarajevo viveva il più lungo assedio della storia moderna, si staglia un’ombra sconcertante: quella di gruppi di tiratori esterni che avrebbero fatto del corpo dei civili assediati il bersaglio di un macabro “safari” di guerra. A trent’anni dal conflitto, emergono accuse secondo cui alcuni stranieri – tra cui italiani – avrebbero pagato per sparare ai civili da colline e palazzi attorno alla città, mentre la comunità internazionale guardava. La vicenda è oggi al centro di un’inchiesta della Procura di Milano, avviata su segnalazione dello scrittore e giornalista Ezio Gavazzeni con la collaborazione di due avvocati, e documentata nel film “Sarajevo Safari” (2022) del regista sloveno Miran Zupanič, che ha riportato alla luce un capitolo oscuro della guerra nei Balcani. Una ricostruzione complessa, fatta di triangolazioni e testimonianze che, se confermate, aprirebbero una ferita profonda nella memoria del conflitto.

Dal 6 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, Sarajevo visse sotto assedio per oltre 1.400 giorni. In quel periodo vennero uccise circa 11.500 persone, tra cui 1.600 bambini, mentre le milizie serbo-bosniache, appoggiate dall’ex esercito jugoslavo, tenevano la città sotto il fuoco dei cecchini appostati su colline e palazzi. Il viale principale, noto come Sniper Alley, divenne un simbolo di terrore quotidiano. In questo contesto, secondo nuove indagini e testimonianze, si sarebbe innestato il fenomeno aberrante del cosiddetto “turismo da cecchino”: individui non appartenenti alle forze combattenti che avrebbero pagato somme ingenti per poter partecipare all’uccisione di civili, come in un tragico passatempo nel caos della guerra.

Le accuse raccolte da Gavazzeni e ora al vaglio della magistratura milanese parlano di italiani che partivano dal Nord del Paese – in particolare da Lombardia e Triveneto – per raggiungere Belgrado e poi le postazioni sulle colline attorno a Sarajevo. Avrebbero pagato l’equivalente odierno di 100mila euro per partecipare all’orrore, spostandosi probabilmente grazie ai voli della compagnia charter serba Aviogenex. Alcuni avrebbero usato come copertura l’attività venatoria, trasportando armi e attrezzature senza destare sospetti. Le informazioni dell’intelligence bosniaca, condivise all’epoca con il Sismi, indicavano la presenza nel 1993 di almeno cinque italiani attorno alla città assediata, accompagnati da miliziani locali. Tra loro, secondo l’esposto, anche un uomo di Milano, proprietario di una clinica privata.

Il fascicolo aperto dalla Procura di Milano ipotizza il reato di omicidio volontario plurimo aggravato da crudeltà e motivi abietti. Per ora non ci sono nomi iscritti nel registro, ma solo l’indicazione di “ignoti”. La base dell’inchiesta è l’esposto di Gavazzeni, presentato lo scorso gennaio, che allega documenti, testimonianze e corrispondenze con fonti bosniache, tra cui un ex agente dell’intelligence militare che racconta come i servizi segreti locali, alla fine del 1993, avessero intercettato notizie di “gruppi turistici di cecchini” partiti dall’Italia. In uno scambio di mail, la fonte racconta di un interrogatorio a un volontario serbo catturato, il quale avrebbe confermato la presenza di stranieri, “almeno tre italiani, uno dei quali milanese”.

Lo scrittore e giornalista Ezio Gavezzani

Le accuse trovano eco nelle parole di John Jordan, ex vigile del fuoco statunitense volontario nella Sarajevo assediata, che davanti al Tribunale dell’Aia nel processo a Ratko Mladić dichiarò: «Ho assistito più di una volta a persone che non sembravano del posto, per il modo di vestire, per le armi che portavano e per il modo in cui venivano guidate dai locali. Quando vedi un ragazzo con un fucile da caccia al cinghiale nella Foresta Nera, capisci che non è lì per combattere, ma per giocare alla guerra».

Le fonti raccolte nello scritto di Gavazzeni parlano di un sistema organizzato e coperto, gestito in parte dai servizi di sicurezza serbi, che avrebbero sfruttato le infrastrutture militari e turistiche per far arrivare “clienti” facoltosi da vari Paesi. Alcuni testimoni anonimi del documentario “Sarajevo Safari” raccontano tariffe differenziate a seconda del bersaglio: i bambini costavano di più, poi gli uomini, le donne e infine gli anziani “che si potevano uccidere gratis”. Testimonianze raccapriccianti, che descrivono un mercato della morte dove la crudeltà diventava intrattenimento.

Il regista Zupanič, nel suo film, dà voce anche a un ex agente dei servizi bosniaci che racconta di come “i clienti arrivassero con voli charter, si sistemassero negli hotel di Pale e poi, accompagnati da guide locali, salissero sui rilievi attorno alla città per sparare con fucili di precisione”. Le immagini e i racconti del documentario hanno suscitato scalpore in Bosnia ed Erzegovina, dove ancora oggi la memoria dell’assedio resta una ferita aperta.

Sulla base di queste nuove tracce, la Procura di Milano, guidata dal procuratore Marcello Viola con il pm Alessandro Gobbis, ha disposto l’acquisizione degli atti del Tribunale penale internazionale dell’Aia relativi ai crimini di guerra compiuti tra il 1992 e il 1996. L’obiettivo è verificare se nei fascicoli processuali o nelle testimonianze compaiano riferimenti a cittadini italiani coinvolti nei fatti. Nei prossimi mesi, i magistrati milanesi e i Ros dei carabinieri ascolteranno alcune persone indicate nell’esposto, tra cui testimoni diretti e collaboratori stranieri.

L’inchiesta presenta difficoltà enormi. Dopo trent’anni, molti documenti sono dispersi, le testimonianze frammentarie, e i confini giuridici tra responsabilità individuale e complicità indiretta restano sottili. Tuttavia, la natura dei fatti – crimini di guerra e contro l’umanità – esclude la prescrizione e permette di indagare senza limiti temporali. Se le prove troveranno riscontro, si tratterà di stabilire se e in che misura cittadini italiani abbiano effettivamente preso parte a un “safari umano” tra le colline di Sarajevo, trasformando la tragedia di un popolo in un gioco di morte.

Il caso dei “cecchini del weekend” mette a nudo un orrore silenzioso: la possibilità che, mentre un’intera città soffriva la fame e la paura, altrove qualcuno acquistasse il diritto di uccidere come in un parco divertimenti dell’abisso. È una storia che impone all’Italia e all’Europa di guardare ancora una volta dentro la memoria della guerra dei Balcani, e di chiedersi non solo chi abbia sparato, ma chi abbia permesso che potesse accadere.

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