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Cronaca

La violenza come spettacolo: analisi criminologica del caso di Moncalieri

L'avvocata e criminologa Rita Tulelli: «Non è bullismo ma una perdita collettiva di empatia. La violenza diventa linguaggio, il dolore uno strumento di potere»

La violenza come spettacolo: analisi criminologica del caso di Moncalieri

Il caso di Moncalieri, dove un quindicenne è stato sequestrato e torturato da due coetanei nella notte di Halloween, continua a far discutere. Per comprendere le radici profonde di un episodio tanto crudele, abbiamo intervistato l’avvocata e criminologa Rita Tulelli, autrice dell’analisi “La violenza come spettacolo: il caso di Moncalieri e la deriva relazionale tra i giovani”.

Avvocata Tulelli, lei sostiene che il caso di Moncalieri non possa essere classificato come un semplice episodio di bullismo. Perché?
«Perché ridurlo a un fatto di bullismo significherebbe minimizzarne la portata criminologica. Qui siamo di fronte a un vero e proprio atto di violenza giovanile collettiva, connotato da crudeltà, disumanizzazione e volontà di dominio. La dinamica non nasce da un impulso isolato, ma si alimenta nella forza del gruppo, che diventa un microcosmo autoreferenziale. In quel contesto, la violenza assume la funzione di linguaggio e di affermazione identitaria. È questo che la rende tanto pericolosa.»

Quindi il gruppo è il motore principale dell’azione criminale?
«Assolutamente sì. Il branco non è solo un insieme di persone, ma un sistema che dissolve la responsabilità individuale. Ogni componente sente meno il peso delle proprie azioni, perché “non è il solo”. È quella che la criminologia chiama diluzione della responsabilità: la colpa si frammenta e, di conseguenza, la violenza si amplifica. La percezione morale si attenua, il limite svanisce, e il gruppo finisce per legittimare il peggio.»

Cosa porta degli adolescenti a comportarsi in modo tanto disumano verso un loro coetaneo?
«Le cause sono molteplici e intrecciate. Sul piano individuale pesa l’impulsività, la mancanza di empatia e la ricerca di riconoscimento. Sul piano familiare, assistiamo spesso a una crisi del controllo genitoriale, alla debolezza dei modelli educativi e a una carenza di dialogo. A livello sociale, invece, emerge un vuoto di riferimenti, una progressiva tolleranza verso la violenza come modalità relazionale. In un contesto dove il rispetto è sostituito dalla forza, la violenza diventa strumento di visibilità e appartenenza.»

C’è anche un tema anagrafico: i protagonisti sono giovanissimi. Quanto pesa l’età su simili condotte?
«Pesa moltissimo. L’adolescenza è una fase delicata, in cui si costruisce l’identità. Ma quando mancano adulti di riferimento, la ricerca di sé può degenerare in comportamenti estremi. È il momento in cui si misura il bisogno di potere, di affermazione, di essere “riconosciuti” dal gruppo. In questo senso, la violenza diventa un modo distorto per sentirsi vivi, forti, accettati. E se nessuno interviene a correggere questa percezione, il rischio è che si formi una generazione che confonde il rispetto con la paura

Lei parla di “normalizzazione della violenza”. Cosa intende?
«Quando la violenza non suscita più vergogna né senso di colpa, ma viene percepita come naturale, significa che il legame sociale si è spezzato. È un processo di desensibilizzazione collettiva che mina la coesione civile. Se i ragazzi non provano disagio di fronte alla sofferenza inflitta a un coetaneo, se ridono o riprendono col telefono un atto di sopraffazione, allora abbiamo perso la capacità di trasmettere i valori fondamentali: empatia, rispetto, dignità

Dal punto di vista criminologico, come si può intervenire per arginare questa deriva?
«Serve una risposta coordinata e multilivello. A scuola, bisogna introdurre percorsi di educazione emotiva e relazionale che aiutino i ragazzi a riconoscere e gestire le proprie emozioni. Le famiglie devono recuperare il loro ruolo di guida e vigilanza, ristabilendo un dialogo autentico. E le istituzioni devono rafforzare le reti tra servizi sociali, scuole e forze dell’ordine, per intercettare i segnali di disagio prima che degenerino. Sul piano giuridico, occorre un equilibrio: i minori devono rispondere delle proprie azioni, ma in un’ottica di responsabilizzazione e recupero. La repressione da sola non basta: serve comprendere, educare, rieducare.»

E la vittima? Quale spazio deve avere in questa prospettiva?
«La vittima deve essere sempre al centro. Le ferite psicologiche e sociali lasciate da un’aggressione così violenta sono profondissime. Il rischio di isolamento, di senso di colpa o di autolesionismo è concreto. Per questo servono supporto psicologico, tutela istituzionale e protezione digitale. Non basta punire chi ha colpito: bisogna anche ricostruire chi è stato colpito.»

L'ORRORE DI HALLOWEEN A MONCALIERI

Era convinto di passare una serata tra amici. Invece, un quindicenne torinese si è ritrovato sequestrato, rasato, picchiato e umiliato per ore da due coetanei che lo avevano attirato con l’inganno in un appartamento a Torino. L’aggressione, avvenuta nella notte di Halloween, ha scioccato la comunità di Moncalieri. I due autori, ora sotto indagine, avrebbero minacciato la vittima con un cacciavite e lo avrebbero costretto a gesti di umiliazione estrema prima di lasciarlo, distrutto, alla stazione di Porta Nuova.

Gli inquirenti hanno sequestrato i telefoni cellulari dei sospettati, ipotizzando che durante le sevizie possa essere stato girato un video. Un’ipotesi ancora al vaglio, ma che aggiunge un livello ulteriore di inquietudine: se confermata, mostrerebbe come la violenza non si esaurisca più nell’atto, ma tenda a trasformarsi in spettacolo.

«È proprio questo il punto — conclude la criminologa Tulelli —: anche solo la possibilità che sia stato ripreso il dolore di un ragazzo dice molto sulla società in cui viviamo. Abbiamo reso la violenza visibile, condivisibile, quasi normale. E finché non recupereremo il senso della dignità umana, continueremo a produrre mostri sociali travestiti da adolescenti.»

L'avvocata e criminologa Rita Tulelli

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