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Cronaca

Assolti i ginecologi Dolfin: nessuna colpa per la perdita dei due gemelli

La giudice Danieli proscioglie padre e figlia: “il fatto non sussiste”. Un processo segnato dal dolore, dai dubbi medico-legali e da un verdetto che ridisegna i confini della colpa in sanità

Assolti i ginecologi Dolfin: nessuna colpa per la perdita dei due gemelli

Assolti i ginecologi Dolfin: nessuna colpa per la perdita dei due gemelli (immagine di repertorio)

Quarantacinque minuti di camera di consiglio sono bastati al Tribunale di Torino per mettere fine a un processo lungo, complesso e umanamente doloroso. La giudice Alessandra Danieli ha pronunciato un’assoluzione con formula piena per Giancarlo Dolfin, ginecologo torinese, e per la figlia Elisabetta, anche lei medico, entrambi accusati di interruzione colposa di gravidanza per la morte di due gemelli concepiti con procreazione medicalmente assistita.

La sentenza, che accoglie integralmente le tesi difensive, chiude un capitolo giudiziario iniziato quasi sei anni fa, l’11 gennaio 2019, con un caso che aveva scosso la comunità medica torinese.

Tutto era cominciato in una clinica privata, la Promea, specializzata in fecondazione assistita. Una donna, collega universitaria della dottoressa Dolfin, si era sottoposta a un’amniocentesi per verificare lo stato di salute dei due feti. Due giorni dopo l’esame aveva sviluppato febbre alta, e pochi giorni più tardi aveva perso entrambi i gemelli. Gli esami avevano poi rilevato un’infezione da stafilococco, e la paziente aveva presentato denuncia penale, ipotizzando una correlazione tra la procedura e la successiva infezione.

L’accusa, sostenuta in aula dal sostituto procuratore Giorgio Nicola, aveva ricostruito l’episodio come un caso di negligenza medica. Secondo la tesi accusatoria, l’amniocentesi non sarebbe stata eseguita in condizioni igieniche adeguate e avrebbe determinato la contaminazione del liquido amniotico, con l’introduzione del batterio responsabile dell’infezione. In alternativa, l’accusa aveva contestato l’omissione terapeutica: la mancata prescrizione di antibiotici dopo la comparsa della febbre.

Nella requisitoria, lo scorso 15 settembre, il pm aveva chiesto quattro mesi di reclusione per il dottor Dolfin, ritenendolo responsabile dell’interruzione colposa di gravidanza, e l’assoluzione per la figlia Elisabetta. Ma oggi, la sentenza della giudice Danieli ha ribaltato ogni accusa.

Secondo il tribunale, non esistono elementi di colpa sufficienti per sostenere l’impianto accusatorio. Il nesso causale tra infezione e condotta medica non è stato dimostrato “oltre ogni ragionevole dubbio”, come impone il diritto penale. La giudice ha ritenuto che il quadro probatorio fosse fragile e contraddittorio, affidato quasi esclusivamente a una perizia disposta dal pubblico ministero, senza conferme oggettive.

La donna – che in aula aveva raccontato tra le lacrime la propria esperienza – si era costituita parte civile assistita dall’avvocato Fulvio Rosari, insistendo sulla mancata tempestività del trattamento antibiotico. Ma la difesa ha contestato ogni profilo di responsabilità, sottolineando che l’infezione da stafilococco può insorgere indipendentemente dall’atto medico e che nessuna anomalia procedurale era stata accertata nella condotta dei due professionisti.

Il processo, oltre al dramma personale, ha riportato in primo piano un tema cruciale: il confine tra rischio clinico e responsabilità penale. Quando un evento avverso in medicina non può essere spiegato con certezza, il giudizio diventa un terreno di equilibrio sottile, dove la prova scientifica e la logica giuridica si intrecciano.

In casi come questo, la questione non è solo tecnica ma etica. Da un lato il dolore della paziente, dall’altro la tutela di chi opera in un contesto sanitario dove l’incertezza è parte della professione. È proprio qui che si colloca la formula piena pronunciata oggi: assoluzione perché il fatto non sussiste, un verdetto che – nelle parole dei giudici – non equivale a un’assoluzione per mancanza di prove, ma a una dichiarazione netta di innocenza.

L’aula del tribunale, durante la lettura, è rimasta in silenzio. L’attenzione si sposta ora alle motivazioni, che verranno depositate entro sessanta giorni e che dovranno chiarire nel dettaglio la valutazione del collegio su due punti centrali: la causalità medico-legale e la definizione di “colpa” in presenza di un rischio insito nella procedura.

Per la difesa, l’esito di oggi rappresenta una conferma di ciò che era emerso già nel corso delle udienze: nessuna condotta negligente, nessuna violazione dei protocolli, ma piuttosto un evento sfortunato in un contesto di medicina ad alto rischio. «L’amniocentesi è un atto invasivo che non può mai essere considerato privo di rischio, ma ciò non significa che ogni complicanza sia il risultato di una colpa», aveva spiegato nei mesi scorsi uno dei consulenti della difesa.

L’accusa, invece, aveva sostenuto che «qualsiasi altra genesi per l’infezione è impossibile». Un’affermazione che il tribunale non ha ritenuto supportata da elementi oggettivi.

L’assoluzione dei due medici arriva a conclusione di un percorso giudiziario che ha alternato momenti di tensione e di grande partecipazione emotiva. La paziente, che aveva vissuto la vicenda anche come collega dei due imputati, ha scelto di non rilasciare dichiarazioni dopo la sentenza.

Il caso Dolfin, però, lascia una traccia profonda anche al di fuori dell’aula di giustizia. Riapre il dibattito sul ruolo della perizia tecnica nei procedimenti penali sanitari, sulla necessità di una maggiore formazione medico-legale e sul confine sottile tra errore e responsabilità. In un sistema giudiziario che tende sempre più a cercare un colpevole per ogni evento tragico, la decisione di oggi ribadisce che non ogni perdita, per quanto devastante, può trasformarsi automaticamente in reato.

Quando la medicina fallisce, resta la sofferenza. Ma quando il diritto penale interviene senza prove solide, il rischio è quello di trasformare la tragedia in colpa. La sentenza della giudice Danieli, nel suo equilibrio, sembra voler dire proprio questo: non basta un sospetto per condannare.

E mentre i due medici tornano alla loro vita professionale, dopo anni di udienze e consulenze contrapposte, resta la consapevolezza di quanto fragile sia il confine tra responsabilità morale e colpa penale. Una linea che la giustizia, oggi, ha scelto di tracciare con rigore, ricordando che la certezza, in tribunale come in medicina, non è mai un concetto astratto, ma l’unica garanzia possibile di giustizia.

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