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Cronaca
29 Ottobre 2025 - 09:25
La città dei “Maranza”: viaggio nel nuovo volto delle gang giovanili
Sembrava il titolo di un romanzo d’avventura al contrario, invece è cronaca. A Torino le baby gang di un tempo si stanno dissolvendo, ma non il fenomeno che incarnavano. Dalla Barriera di Milano al centro, passando per Vanchiglia e Borgo Po, è nata una nuova geografia giovanile: più fluida, più visibile, più digitale. Li chiamano “Maranza”, una parola che rimbalza sui social, nei corridoi delle scuole, nelle chat di quartiere. Sono ragazzi e ragazze che non si riconoscono più nei confini delle vecchie bande, ma nemmeno in quelli della legalità. Si muovono in gruppi, cambiano sigle e territori come si cambia username. E a osservarli da vicino, si scopre che dentro quel nome si nasconde una trasformazione sociale profonda.
Nel 2008, un’inchiesta del Corriere della Sera disegnava la mappa delle baby gang torinesi: Banda del Rosso, Barriera Domina, Cabinotti, Barriera Cosa Nostra. Ognuna aveva il suo territorio, le sue regole, i suoi nemici. Oggi quella mappa è stata riscritta. Al posto delle sigle storiche ci sono nuove “famiglie”: Ali Babà al posto della Banda del Rosso, Muhammad Alì in sostituzione di Barriera Domina, Aladino che ha cancellato Barriera Cosa Nostra. In centro agiscono i Kiwi, eredi dei vecchi Truzzi di piazza Castello. Nella Crocetta si fanno chiamare Maranza Kebab, mentre nella zona nord, tra Barriera e Madonna di Campagna, si sono affacciati i Maranza della Muraglia, gruppo in cui compaiono anche ragazzi cinesi. È la prova che non si tratta più di microcosmi etnici o territoriali, ma di un mosaico meticcio in cui il collante è un codice condiviso: linguaggio, estetica, appartenenza.
Dietro il fenomeno non c’è una nuova criminalità organizzata, ma una mutazione del disagio urbano. Lo spiegano anche gli operatori di strada, che raccontano una gioventù senza coordinate stabili, sospesa tra povertà educativa e ossessione per la visibilità. Il simbolo del gruppo non è più la felpa o la sciarpa colorata, ma il profilo social. La violenza – reale o mostrata – diventa contenuto, performance, rito di passaggio. È la “fama” digitale il nuovo capitale simbolico: chi ottiene like, ottiene potere.
In questa metamorfosi, le piattaforme hanno giocato un ruolo decisivo. Non c’è stata una guerra tra bande, ma un cambio di paradigma dettato dall’algoritmo. I Maranza filmano, postano, taggano. Le “imprese” – risse, inseguimenti, rapine, sfide assurde – diventano clip virali, strumenti di reclutamento e riconoscimento. L’eco social moltiplica il fenomeno: un video girato in Barriera arriva a San Salvario in pochi minuti, e la logica dell’emulazione fa il resto. È un meccanismo di reputazione istantanea, che sostituisce le antiche prove di coraggio con i numeri delle visualizzazioni.

Eppure, le radici restano le stesse: disagio, marginalità, desiderio di riscatto. I nuovi gruppi non nascono tanto per contiguità geografica, quanto per prossimità emotiva. Ci si riconosce nell’assenza di prospettive, nel bisogno di sentirsi parte di qualcosa, nell’illusione che un gesto eclatante possa ribaltare rapporti di forza e ingiustizie. È la promessa fallace di una guerra simbolica contro un mondo che non offre ruoli.
Alcune vecchie bande resistono, anche se trasformate. I Gescaleros di Venaria hanno ancora il loro quartier generale in uno scantinato delle ex Case Gescal; i Calibronove restano attivi a Mirafiori; i Banana a Santa Rita; i Fracassa a Nizza Millefonti. E tra Moncalieri, Orbassano e Settimo Torinese si muovono ancora le Ragazze Pazze, gruppo tutto al femminile nato alla fine degli anni Duemila. Ma anche qui la composizione è cambiata: italiani, ragazzi di origine nordafricana, sudamericana, asiatica. Tutti uniti da un senso comune di invisibilità sociale.
Il campanello d’allarme era suonato già nel 2017, quando la tragedia di piazza San Carlo — tre morti e oltre 1.600 feriti — aveva mostrato quanto potesse essere fragile l’ordine urbano di fronte a un impulso collettivo incontrollato. A indagare fu allora Gian Maria Sertorio, oggi questore di Aosta, che identificò la cosiddetta “Banda di Budino”, gruppo di ragazzi responsabile del panico in piazza. L’episodio, al di là delle responsabilità penali, avrebbe dovuto aprire una riflessione su come la rete potesse trasformare le aggregazioni giovanili in detonatori sociali.
Da allora, Torino ha visto cambiare pelle senza che le istituzioni riuscissero davvero a seguirne il passo. Gli operatori di polizia, spiegano gli addetti ai lavori, “fanno quel che possono”, ma la macchina amministrativa è lenta, frammentata, priva di strategie coordinate. La scuola e i servizi sociali, intanto, si trovano a fronteggiare nuove forme di povertà educativa, difficili da intercettare con gli strumenti tradizionali. La politica locale — come accade in molte altre città italiane — oscilla tra repressione episodica e dichiarazioni d’intenti, ma manca una visione strutturale che tenga insieme sicurezza, formazione e cultura digitale.
Oggi i “Maranza” non sono una minaccia organizzata nel senso classico, ma un sistema culturale diffuso, con la forza di egemonizzare linguaggi, abitudini e persino mode. La loro influenza non si misura solo nei numeri dei reati, ma nella capacità di definire ciò che è “cool” o “vergognoso” dentro le comunità giovanili. Chi non appartiene rischia l’esclusione. Chi imita, guadagna visibilità.
Contrastare il fenomeno non significa solo presidiare le strade, ma riconquistare l’immaginario. Servono progetti di prossimità stabili nei quartieri più esposti — da Barriera di Milano alla Crocetta — con mediatori sociali riconosciuti e presenti. Serve una contro-narrazione digitale, che parli lo stesso linguaggio dei ragazzi ma con valori opposti, capace di togliere fascino all’illegalità e restituire dignità al quotidiano. Servono percorsi di formazione e lavoro rapidi, pratici, nei luoghi in cui la frustrazione si sedimenta.
Anche la giustizia minorile deve cambiare passo: risposte tempestive, ma riparative, che non regalino né impunità né stigma. E intorno, una rete di alleanze civiche — residenti, commercianti, associazioni — in grado di fare da sensore sociale, senza sostituirsi allo Stato ma aiutandolo a vedere.
Oggi la sfida è tutta qui: evitare che il nome “Maranza” diventi un marchio generazionale, un’etichetta che fissa e giustifica. Dietro quei video e quelle bravate, spesso, c’è solitudine. Ci sono famiglie spaccate, scuole che non sanno trattenere, città che offrono centri commerciali ma non spazi d’incontro.
Torino, che fu capitale industriale e poi laboratorio della postmodernità, si ritrova ora campo di prova per una nuova forma di marginalità urbana, meno visibile ma più pervasiva. Non è solo una questione di ordine pubblico, ma di linguaggio, di senso, di futuro. Finché la parola “appartenenza” continuerà a essere concessa solo ai gruppi più rumorosi, i ragazzi più fragili cercheranno in loro la voce che non trovano altrove.
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