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Cronaca
17 Ottobre 2025 - 14:10
"Teso che faccio?": le ultime parole di Pamela prima di morire
«Teso che faccio?». È l’ultimo messaggio che Pamela Genini, 29 anni, ha inviato al suo ex fidanzato poco prima di essere massacrata da Gianluca Soncin, 52 anni, nella sua abitazione di via Iglesias, la sera del 14 ottobre. Un messaggio breve, disperato, inviato alle 21.52, pochi istanti prima che la furia cieca dell’uomo le togliesse la vita con 24 coltellate.
Le chat, riportate negli atti dell’inchiesta coordinata dalla pm Alessia Menegazzo e dall’aggiunta Letizia Mannella, restituiscono l’immagine di una donna terrorizzata, consapevole del pericolo imminente e incapace di sottrarsi a una violenza annunciata.
Alle 21.35, Pamela scrive all’amico: «Teso ho paura, ha fatto doppione delle chiavi mie ed è entrato ora in casa. Non so che fare. Chiama la polizia». L’uomo, incredulo, risponde chiedendo conferma dell’indirizzo. Lei gli fornisce con precisione i dettagli: «Via Iglesias 33, secondo piano, ma digli di non suonare per favore».
In quei minuti frenetici, la giovane cerca di restare lucida, ma il terrore la travolge. «Ho paura però non devono suonare capito, che entrano e basta», scrive alle 21.37. Alle 21.43 l’amico le comunica che la stanno chiamando. Pamela replica: «Non posso rispondere teso, ho paura, ti rendi conto cosa ha fatto». Poi, alle 21.46, un messaggio che suona come una premonizione: «Questo è matto completamente, non so che fare».
Le ultime parole arrivano sei minuti dopo: «Teso che faccio?». Dall’altra parte, l’uomo prova a rassicurarla: «Stanno arrivando. La polizia li ho chiamati. E sto arrivando pure io. Apri sotto che sono giù la polizia». Ma a quel messaggio, Pamela non risponderà più.
Quando gli agenti raggiungono il palazzo, sentono le urla provenire dall’interno dell’abitazione: «Mi sta accoltellando, aiuto!», sono le ultime parole della ragazza. Corrono su per le scale, ma arrivano troppo tardi. Soncin, dopo aver sferrato i colpi con ferocia, resta accanto al corpo esanime di Pamela fino all’arrivo delle forze dell’ordine.
L’uomo, arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato, si trova ora in carcere in seguito all’ordinanza firmata dal gip Tommaso Perna, che ha confermato tutte e cinque le aggravanti contestate: premeditazione, stalking, crudeltà, violazione di domicilio e motivi abietti.
Gli inquirenti stanno ricostruendo la spirale di violenza e ossessione che precedeva il delitto. Da mesi, secondo le testimonianze di amici e conoscenti, Pamela era perseguitata da Soncin, che non accettava la fine della loro relazione. Messaggi, pedinamenti, minacce, fino a un precedente tentativo di aggressione. In un verbale, un ex compagno della giovane aveva riferito che l’uomo l’aveva già minacciata più volte, puntandole perfino una pistola scacciacani al ventre e tentando di accoltellarla.
Quando gli investigatori hanno perquisito l’abitazione di Soncin a Cervia, hanno trovato una decina di coltelli, cutter e armi da taglio, simili a quello usato per uccidere, oltre a pistole scacciacani e una serie di chiavi. Tra queste, alcune compatibili con la copia dell’appartamento di Pamela. Era stato lui stesso, di nascosto, a duplicarle per poter entrare in casa senza essere visto.
L’autopsia, affidata al team dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, chiarirà nei prossimi giorni quali coltellate siano state fatali e se la vittima abbia tentato di difendersi. Le prime analisi parlano di 24 ferite da taglio, inflitte con violenza estrema.
L’omicidio di Pamela è l’ennesimo femminicidio consumato tra le mura domestiche, un’altra storia di ossessione, possesso e paura. Una giovane donna che aveva cercato di ricostruire la propria vita dopo le violenze, denunciando, chiedendo aiuto, tentando di proteggersi. Ma come troppo spesso accade, la legge e le misure di sicurezza non sono bastate a salvarla.
La sua storia lascia dietro di sé una scia di dolore e interrogativi. Perché un uomo che aveva già mostrato segnali di pericolosità era libero? Perché una donna che aveva denunciato si è trovata di nuovo sola di fronte al suo aggressore?
In quelle chat, che ora fanno parte del fascicolo d’indagine, c’è tutto: la paura, la lucidità disperata, la consapevolezza che qualcosa di terribile stava per accadere. E c’è anche, in filigrana, l’assenza dello Stato, che ancora una volta arriva quando è troppo tardi.
La sera del 14 ottobre, a Milano, una giovane donna ha perso la vita chiedendo aiuto in tempo reale. Eppure nessuno è riuscito a salvarla. Quelle parole — «Teso che faccio?» — restano come un grido muto, un promemoria per tutti. Perché dietro ogni femminicidio non c’è solo una tragedia privata: c’è un fallimento collettivo.
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