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08 Ottobre 2025 - 10:25
Tragedia di caccia in Canavese: la Procura di Ivrea indaga per omicidio colposo il 19enne domiciliato a Castellamonte
Sono passati tre giorni ma nella Valle Orco il silenzio è ancora pesante.
Domenica 5 ottobre, durante una battuta di caccia al cinghiale, Armando Dalla Bona, 82 anni, è stato colpito a morte da un colpo di fucile esploso da un giovane compagno di squadra.
Oggi la Procura di Ivrea ha iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo il diciannovenne che ha sparato. Un atto dovuto, spiegano gli inquirenti, per consentire gli accertamenti e l’autopsia sul corpo dell’anziano. Ma la ferita che attraversa la valle non è solo giudiziaria: è morale, culturale, umana.
Il ragazzo non è un neofita. Ha 19 anni, è originario della Valle d’Aosta ma da tempo vive a Castellamonte, dove è domiciliato. È in possesso di regolare licenza di caccia, ottenuta dopo anni di pratica accanto al padre. Non risulta essere un volto noto nella comunità, ma tra i cacciatori lo conoscono come un giovane appassionato, attento, capace. Eppure, quella domenica, qualcosa è andato storto.
Secondo la prima ricostruzione dei carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile di Ivrea e della stazione di Locana, Dalla Bona era posizionato in basso, nei boschi, mentre il gruppo si muoveva più in alto lungo la montagna. Il giovane, tratto in inganno da un movimento nel fitto della vegetazione, avrebbe scambiato l’uomo per un cinghiale. Ha sparato un colpo. L’82enne, colpito in una zona vitale, è caduto a terra.
L’allarme è stato immediato. Le prime comunicazioni parlavano di un malore, ma quando l’elisoccorso del 118 ha raggiunto il punto, Dalla Bona era già senza vita. L’intervento per recuperare la salma si è protratto fino al pomeriggio, per via del terreno impervio.
Caccia (archivio)
La pm Elena Parato, titolare dell’inchiesta, ha disposto l’autopsia e acquisito le testimonianze di tutti i partecipanti alla battuta. Nessuna ipotesi alternativa per ora: un incidente, drammatico ma spiegabile. Tuttavia, al centro delle indagini c’è un dettaglio cruciale, confermato dai presenti e dagli esperti del settore.
Dalla Bona, cacciatore di lungo corso, non indossava il giubbotto ad alta visibilità, obbligatorio durante le uscite venatorie. Aveva i classici abiti scuri, usati per mimetizzarsi nel bosco. Una scelta abituale, ma oggi fatale. Chi era con lui lo ha confermato: gli altri cacciatori erano visibili da lontano, con le pettorine arancioni e i copricapi fluorescenti. Lui no.
Proprio quell’assenza, spiegano gli inquirenti, potrebbe aver tratto in inganno il giovane di Castellamonte. Una macchia scura tra i cespugli, un movimento rapido, un riflesso, e il colpo è partito. Non per imprudenza, ma per errore. La dinamica è ancora oggetto di accertamenti tecnici, ma gli elementi raccolti finora puntano verso la fatalità.
Armando Dalla Bona non era un cacciatore qualsiasi. Ex dipendente della Singer, era volontario della Croce Rossa di Montanaro e presidente dei Tiratori Canavesani di Lessolo. Un uomo con decenni di esperienza, profondo conoscitore della montagna e delle regole della caccia. Proprio per questo, la sua morte scuote anche gli ambienti venatori, abituati a pensare che l’esperienza basti a tenere lontano il rischio.
Nel frattempo, la Procura di Ivrea prosegue con prudenza. Il giovane indagato non è sottoposto a misure restrittive, ma sarà ascoltato di nuovo per chiarire i dettagli. Le perizie balistiche dovranno stabilire la distanza esatta del tiro, l’angolazione, la traiettoria. Si tratta di accertamenti necessari, anche per tutelare chi ha agito senza intenzione.
Tra i cacciatori del Canavese e della Valle Orco cresce l’inquietudine. Perché il rispetto delle norme di sicurezza, in teoria, dovrebbe bastare. In pratica, non sempre accade. Gli abiti scuri restano un’abitudine diffusa, soprattutto tra i più anziani. Ma la legge è chiara: il giubbotto arancione fluorescente è obbligatorio. È uno strumento semplice, ma essenziale per ridurre il rischio di scambi e incidenti.
Durante una battuta di caccia, le regole sono rigide: non si spara mai senza identificare con certezza la sagoma dell’animale, si rispettano le distanze, si evita di colpire verso linee di tiro sconosciute. Tuttavia, in un terreno montano, dove la visibilità cambia a ogni curva e il suono rimbalza sulle rocce, anche un attimo di esitazione può diventare tragedia.
Il calendario venatorio del Piemonte prevede che la caccia al cinghiale resti aperta fino al 31 gennaio 2026. In montagna, il sabato e la domenica; in pianura, anche il mercoledì. È una pratica radicata, che unisce centinaia di appassionati. Ma ogni stagione porta con sé lo stesso interrogativo: quanto è sicuro sparare in territori frequentati anche da escursionisti, cercatori di funghi e famiglie?
In Canavese, i colpi di fucile fanno ormai parte del paesaggio sonoro dei fine settimana. Ma per molti cittadini è diventata un’abitudine da evitare. C’è chi rinuncia alle passeggiate nei boschi, chi resta lontano dai sentieri, chi indossa abiti fluorescenti per precauzione. La convivenza fra caccia e vita civile si fa ogni anno più difficile.
A Locana, la notizia dell’indagine formale non ha sorpreso. Tutti sanno che è un passaggio obbligato. Nessuno, però, accusa il giovane. Gli amici di Dalla Bona, che erano con lui quel giorno, parlano di fatalità. Il dolore, semmai, è doppio: per chi è morto e per chi dovrà convivere con l’idea di aver premuto il grilletto.
Sull’altro versante, però, monta l’esasperazione di chi vive ai margini del bosco e sente le doppiette ogni weekend. Gli alpinisti, i camminatori, chi raccoglie castagne o funghi: tutti chiedono regole più rigide, controlli più frequenti, zone di sicurezza. Ogni incidente riapre lo stesso dibattito. Ogni autunno, la stessa promessa di prudenza.
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