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Cronaca
05 Ottobre 2025 - 20:10
Scambiato per un animale da un compagno di battuta: chi è Armando Dalla Bona, il cacciatore ucciso a Locana da un 19enne
Una mattina limpida d’inizio autunno. L’odore del bosco, le radio accese, il fruscio dei passi fra i castagni. Poi un colpo secco, uno solo, e un silenzio che pesa più di tutto. Armando Dalla Bona, 82 anni, è morto così, in una battuta di caccia nella Valle Orco. Un colpo partito per errore dal fucile di un compagno. Forse un gesto istintivo, forse un abbaglio. Ma in un attimo la passione di una vita si è trasformata in tragedia.
L’allarme è scattato alle nove. Sul posto sono arrivati i sanitari del 118 e l’elisoccorso regionale. Hanno tentato il possibile. Ma Dalla Bona era già senza vita. Il proiettile lo aveva colpito in un punto vitale. Un impatto che non lascia scampo, nemmeno con l’intervento immediato.
Secondo la prima ricostruzione dei carabinieri di Rivara e Ivrea, l’anziano non indossava i dispositivi di riconoscimento obbligatori. Quella pettorina arancione, visibile a distanza, che serve a dire “sono un uomo, non un animale”. Un dettaglio che forse avrebbe potuto salvargli la vita.
È accaduto nei boschi sopra Zaunere, una frazione di Locana, immersa tra castagni e noccioli. Una decina di cacciatori impegnati in una battuta al cinghiale. Ognuno al suo posto, in contatto radio. Tutto secondo le regole. Fino a quel colpo.
A sparare, secondo quanto emerso, sarebbe stato un diciannovenne. Il giovane si trovava in posizione sopraelevata rispetto al gruppo. Credeva di aver individuato un animale tra i cespugli. Ha mirato, ha premuto il grilletto. Solo dopo ha capito l’errore.
Quando i soccorsi sono arrivati, Armando Dalla Bona era riverso ai piedi di un castagno, in una zona impervia. I medici si sono calati con il verricello, ma non hanno potuto far altro che constatare il decesso.
Il corpo è rimasto lì fino al pomeriggio, mentre i carabinieri e la SIS del reparto operativo di Torino effettuavano i rilievi. Alle 16.15 il Soccorso Alpino ha recuperato la salma. La Procura di Ivrea ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e disposto l’autopsia.
Era un ex dirigente d’azienda di Leinì, un uomo conosciuto e stimato. Padre di due figlie, volontario della Croce Rossa di Montanaro. Da sempre appassionato di montagna e di caccia.
Chi lo ha conosciuto lo descrive come prudente, rispettoso delle regole, mai avventato.
Un uomo che amava la natura, le camminate, le storie raccontate davanti al fuoco dopo una giornata nei boschi.
La sua morte ha colpito duramente non solo Montanaro, ma tutta la comunità del Canavese. Un paese intero si interroga su come sia possibile morire così, a ottantadue anni, durante un’attività che doveva essere di piacere.
Gli investigatori stanno verificando il rispetto delle procedure di sicurezza: se tutti i partecipanti fossero dotati di pettorine e cappellini ad alta visibilità, se i posti fossero stati assegnati correttamente, se il tiro del giovane fosse compatibile con la posizione della vittima.
Le prime informazioni parlano di abiti scuri indossati da entrambi: il diciannovenne, come la vittima, non avrebbe rispettato del tutto le norme previste. E questo apre uno squarcio inquietante su un mondo dove la consuetudine, spesso, prevale sulla prudenza.
Le indagini dovranno stabilire se ci siano responsabilità individuali o collettive, se sia mancato il coordinamento o se la tragedia sia frutto di un istante di distrazione. Ma resta una certezza: l’errore umano non perdona.
Solo due settimane fa, nel Cuneese, un altro cacciatore, Daniele Barolo, 46 anni, è morto nello stesso modo. Un colpo partito dal fucile di un amico, a Carrù. Stava partecipando a una battuta al cinghiale, come Dalla Bona. Anche lì, un bersaglio confuso, un proiettile fatale.
Barolo, agricoltore e padre di due figlie, è stato colpito al petto. I soccorsi sono arrivati subito, ma invano. La sua comunità, a Rocca de’ Baldi, non si è ancora ripresa.
Due vittime piemontesi in meno di un mese. La stagione venatoria è cominciata il primo settembre e ha già lasciato dietro di sé un bilancio pesante.
Ogni volta che accade, si riaccende lo stesso dibattito. Tradizione o anacronismo? Passione o pericolo pubblico?
Le associazioni animaliste chiedono da anni la sospensione della caccia, o almeno regole più rigide.
La presidente della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente, Michela Vittoria Brambilla, aveva commentato con durezza la morte di Barolo: «Primo giorno, primo morto. Comincia nel peggiore dei modi la stagione di caccia, pratica assurda, crudele, anacronistica e pericolosa. Nel 2025 non ha più senso sparare per divertimento. E alla fine, inevitabilmente, si sparano tra di loro.»
Parole che irritano chi la caccia la difende come antica tradizione, come momento di socialità e di contatto con la natura. Ma è difficile ignorare i numeri: ogni anno, secondo le statistiche, una ventina di persone muoiono in incidenti venatori. Cacciatori, escursionisti, passanti. Tutti vittime della stessa leggerezza: la convinzione che basti l’esperienza per tenere lontano il rischio.
A Montanaro, oggi, nessuno parla. Le case chiuse, le serrande abbassate, la voce bassa persino al bar. «Armando era uno che conosceva ogni sentiero» racconta un compaesano. «Non si può morire così».
Nelle prossime ore si attende il nulla osta per i funerali.
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