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Cronaca

Lupo azzanna un allevatore mentre difende il gregge

L'uomo ferito mentre difendeva una pecora; l'allarme dei margari: episodio nel Pinerolese, alta Val Chisone

Lupo azzanna allevatore

lupo azzanna un allevatore mentre difende il gregge

Una manciata di attimi, un gesto istintivo per strappare una pecora alla presa del predatore, poi i denti. In alta Val Chisone, nel Pinerolese, un allevatore è stato ferito da un lupo mentre cercava di difendere il proprio gregge. La denuncia arriva da Adialpi, l’associazione che riunisce i margari del Nord Ovest, e se confermata segnerebbe un precedente: il primo caso di aggressione a un pastore sulle Alpi piemontesi. Il presidente Giovanni Dalmasso indica il luogo con precisione — “nel Pinerolese, in alta Val Chisone” — ma per ora restano riservati i dettagli su dinamica completa, condizioni dell’uomo e data esatta. È una prudenza necessaria quando i fatti scivolano dall’urgenza alla prova, ma non attenua il segnale lanciato al sistema montagna.

La notizia pesa per almeno due ragioni. Primo: il passaggio dalla predazione al bestiame al contatto diretto con l’uomo sposta l’asticella del rischio percepito tra chi vive i pascoli estivi. Secondo: il teatro dell’episodio è un corridoio alpino delicato, dove i pascoli convivono con una presenza faunistica in ripresa, e in cui ogni stagione riscrive gli equilibri tra greggi, selvatici, carichi di malga e condizioni meteo. Qui non c’è spazio per slogan: la convivenza si regge su prevenzione, rapidità di intervento, regole chiare e verifiche trasparenti.

Nel racconto di Adialpi il momento della frizione è nitido: l’allevatore interviene su una pecora sotto pressione, il lupo reagisce, la distanza tra uomo e animale si annulla in un secondo. È lo scenario che ogni pastore teme quando i dissuasori non bastano e la linea di contatto si accorcia. E

d è proprio da questa linea che occorre ripartire, con domande a cui serve dare risposte operative. Che barriere erano in campo? Recinzioni elettrificate correttamente posate e mantenute? Qual era la composizione del gregge, quante capre o pecore in quel punto, quanti cani da guardiania presenti? In che orario e in quali condizioni di visibilità è avvenuto l’episodio? C’erano altri lupi nelle vicinanze, un branco in pressione o un singolo individuo? E ancora: quali sono le condizioni cliniche dell’allevatore, che tipo di ferite ha riportato, quanto è durato il contatto, quali segnali di allerta c’erano stati nei giorni precedenti (predazioni, avvistamenti a ridosso delle baite, inseguimenti a breve distanza)?

La mappa del rischio, in montagna, non si disegna con le impressioni, ma con sopralluoghi, verbali, tracce, orme, campioni biologici, tempistiche dei soccorsi e coordinate precise. Perché un caso fa notizia, ma sono le evidenze a fare gestione. Ciò che questo episodio mette in fila, comunque, è il tema della sicurezza sul lavoro in quota: chi governa un gregge sotto attacco deve poter contare su strumenti, formazione e supporto adeguati. Le misure note — recinzioni elettrificate multitirolo ben messe a terra, corretta gestione dei turni di notte, ricoveri mobili, cani selezionati e addestrati, deterrenti acustico-visivi mirati — funzionano se applicate in modo rigoroso, aggiornate e tarate sulle caratteristiche dei nuclei familiari di lupo presenti. Ma quando la pressione predatoria aumenta o si sposta, servono protocolli dinamici, non cornici statiche.

Se la segnalazione di Adialpi troverà riscontro ufficiale, il passaggio successivo è chiaro: aggiornare piani di prevenzione e procedure di pronto intervento nelle zone più esposte, ridefinire le priorità dei contributi per le misure di difesa, attivare rapidamente ristori e perizie nei casi di predazione, e soprattutto garantire presenza tecnica in campo quando i pastori chiedono aiuto. In parallelo, serve pulizia del dibattito pubblico: no alla contrapposizione ideologica tra “pro” e “contro” il lupo; sì a una gestione adattativa che protegga la biodiversità e, insieme, la dignità economica del lavoro d’alpe. Le comunità di valle sanno che la tenuta dei pascoli non è retorica: significa presidio del territorio, prevenzione incendi, manutenzione diffusa, qualità delle produzioni e identità.

Abbandonare un alpeggio perché la pressione diventa insostenibile non è un semplice cambio di mestiere: è una frattura che indebolisce l’intero sistema. In alta Val Chisone la storia di oggi racconta già il domani: chi sale in malga chiede certezze minime — numeri chiari, tempi rapidi, tecnici in loco quando serve, indennizzi che non arrivino quando la stagione è finita. Chiede, soprattutto, che ogni “primo caso” non diventi il precedente ignorato della prossima emergenza. Fino a quando le verifiche non avranno fissato il perimetro dei fatti, restano i punti fermi: la fonte è autorevole (Adialpi), il luogo è definito (alta Val Chisone), la qualificazione dell’episodio — aggressione a un pastore — è un salto di livello che impone attenzione immediata. E ci sono le domande aperte che trasformano la cronaca in agenda: chi ha visto, chi ha certificato, cosa si è già fatto sul pascolo per ridurre il rischio, cosa si farà da domani perché non accada di nuovo.

Montagna, pascoli, predatori e greggi continueranno a sfidarsi sul filo di una convivenza difficile. Ma la cronaca non deve sostituire la gestione. Tocca alle istituzioni, agli enti tecnici e alle stesse associazioni — dei pastori e della conservazione — fare il proprio pezzo, senza scorciatoie. Qui non si tratta di scegliere un totem, ma di tenere insieme sicurezza, biodiversità e lavoro. Il resto è rumore.

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