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Cronaca
26 Settembre 2025 - 16:15
lupo azzanna un allevatore mentre difende il gregge
Una manciata di attimi, un gesto istintivo per strappare una pecora alla presa del predatore, poi i denti. In alta Val Chisone, nel Pinerolese, un allevatore è stato ferito da un lupo mentre cercava di difendere il proprio gregge. La denuncia arriva da Adialpi, l’associazione che riunisce i margari del Nord Ovest, e se confermata segnerebbe un precedente: il primo caso di aggressione a un pastore sulle Alpi piemontesi. Il presidente Giovanni Dalmasso indica il luogo con precisione — “nel Pinerolese, in alta Val Chisone” — ma per ora restano riservati i dettagli su dinamica completa, condizioni dell’uomo e data esatta. È una prudenza necessaria quando i fatti scivolano dall’urgenza alla prova, ma non attenua il segnale lanciato al sistema montagna.
La notizia pesa per almeno due ragioni. Primo: il passaggio dalla predazione al bestiame al contatto diretto con l’uomo sposta l’asticella del rischio percepito tra chi vive i pascoli estivi. Secondo: il teatro dell’episodio è un corridoio alpino delicato, dove i pascoli convivono con una presenza faunistica in ripresa, e in cui ogni stagione riscrive gli equilibri tra greggi, selvatici, carichi di malga e condizioni meteo. Qui non c’è spazio per slogan: la convivenza si regge su prevenzione, rapidità di intervento, regole chiare e verifiche trasparenti.
Nel racconto di Adialpi il momento della frizione è nitido: l’allevatore interviene su una pecora sotto pressione, il lupo reagisce, la distanza tra uomo e animale si annulla in un secondo. È lo scenario che ogni pastore teme quando i dissuasori non bastano e la linea di contatto si accorcia. E
d è proprio da questa linea che occorre ripartire, con domande a cui serve dare risposte operative. Che barriere erano in campo? Recinzioni elettrificate correttamente posate e mantenute? Qual era la composizione del gregge, quante capre o pecore in quel punto, quanti cani da guardiania presenti? In che orario e in quali condizioni di visibilità è avvenuto l’episodio? C’erano altri lupi nelle vicinanze, un branco in pressione o un singolo individuo? E ancora: quali sono le condizioni cliniche dell’allevatore, che tipo di ferite ha riportato, quanto è durato il contatto, quali segnali di allerta c’erano stati nei giorni precedenti (predazioni, avvistamenti a ridosso delle baite, inseguimenti a breve distanza)?
La mappa del rischio, in montagna, non si disegna con le impressioni, ma con sopralluoghi, verbali, tracce, orme, campioni biologici, tempistiche dei soccorsi e coordinate precise. Perché un caso fa notizia, ma sono le evidenze a fare gestione. Ciò che questo episodio mette in fila, comunque, è il tema della sicurezza sul lavoro in quota: chi governa un gregge sotto attacco deve poter contare su strumenti, formazione e supporto adeguati. Le misure note — recinzioni elettrificate multitirolo ben messe a terra, corretta gestione dei turni di notte, ricoveri mobili, cani selezionati e addestrati, deterrenti acustico-visivi mirati — funzionano se applicate in modo rigoroso, aggiornate e tarate sulle caratteristiche dei nuclei familiari di lupo presenti. Ma quando la pressione predatoria aumenta o si sposta, servono protocolli dinamici, non cornici statiche.
Se la segnalazione di Adialpi troverà riscontro ufficiale, il passaggio successivo è chiaro: aggiornare piani di prevenzione e procedure di pronto intervento nelle zone più esposte, ridefinire le priorità dei contributi per le misure di difesa, attivare rapidamente ristori e perizie nei casi di predazione, e soprattutto garantire presenza tecnica in campo quando i pastori chiedono aiuto. In parallelo, serve pulizia del dibattito pubblico: no alla contrapposizione ideologica tra “pro” e “contro” il lupo; sì a una gestione adattativa che protegga la biodiversità e, insieme, la dignità economica del lavoro d’alpe. Le comunità di valle sanno che la tenuta dei pascoli non è retorica: significa presidio del territorio, prevenzione incendi, manutenzione diffusa, qualità delle produzioni e identità.
Abbandonare un alpeggio perché la pressione diventa insostenibile non è un semplice cambio di mestiere: è una frattura che indebolisce l’intero sistema. In alta Val Chisone la storia di oggi racconta già il domani: chi sale in malga chiede certezze minime — numeri chiari, tempi rapidi, tecnici in loco quando serve, indennizzi che non arrivino quando la stagione è finita. Chiede, soprattutto, che ogni “primo caso” non diventi il precedente ignorato della prossima emergenza. Fino a quando le verifiche non avranno fissato il perimetro dei fatti, restano i punti fermi: la fonte è autorevole (Adialpi), il luogo è definito (alta Val Chisone), la qualificazione dell’episodio — aggressione a un pastore — è un salto di livello che impone attenzione immediata. E ci sono le domande aperte che trasformano la cronaca in agenda: chi ha visto, chi ha certificato, cosa si è già fatto sul pascolo per ridurre il rischio, cosa si farà da domani perché non accada di nuovo.
Montagna, pascoli, predatori e greggi continueranno a sfidarsi sul filo di una convivenza difficile. Ma la cronaca non deve sostituire la gestione. Tocca alle istituzioni, agli enti tecnici e alle stesse associazioni — dei pastori e della conservazione — fare il proprio pezzo, senza scorciatoie. Qui non si tratta di scegliere un totem, ma di tenere insieme sicurezza, biodiversità e lavoro. Il resto è rumore.
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