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Cronaca

"Pericolo radicalizzazione islamica" nelle carceri italiane: il sindacato lancia l'allarme

Dopo l'arresto di un presunto jihadista, il sindacato penitenziario denuncia strutture fragili e personale impreparato, chiedendo programmi mirati e rinforzi

"Pericolo radicalizzazione islamica" nelle carceri italiane: il sindacato lancia l'allarme

"Pericolo radicalizzazione islamica" nelle carceri italiane: il sindacato lancia l'allarme (immagine di repertorio)

L’arresto a Torino di un cittadino tunisino, accusato di partecipazione a un’organizzazione terroristica jihadista, riaccende i riflettori su un tema che da tempo preoccupa sindacati e osservatori della sicurezza: il rischio di radicalizzazione islamica nelle carceri italiane. A dirlo è Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato F.S.A.-C.N.P.P.-S.PP., che parla di “un nuovo campanello d’allarme da non sottovalutare”.

Il caso torinese arriva a poche settimane dall’espulsione del presunto imam del carcere di Alessandria, Bouchta El Allam, marocchino di 46 anni, arrestato nel 2021 e condannato nel 2022 dal Tribunale di Torino a sei mesi per propaganda e istigazione all’odio etnico e religioso. Due episodi ravvicinati che, secondo il sindacato, dimostrano come le nostre prigioni possano trasformarsi in terreno fertile per il proselitismo jihadista.

Secondo i dati citati da Di Giacomo, nelle carceri di Piemonte, Lombardia e Lazio la presenza di detenuti musulmani arriva in alcuni istituti a toccare punte del 60% della popolazione carceraria. In totale, i detenuti di fede islamica sarebbero circa 10 mila in tutta Italia, anche se molti non dichiarano apertamente la propria religione per timore di conseguenze.

Il sindacato denuncia una gestione ancora troppo superficiale del problema: la cosiddetta classificazione in detenuti “segnalati”, “attenzionati” e “monitorati” non sarebbe più sufficiente a fronte di un fenomeno in continua evoluzione. Di Giacomo insiste sulla necessità di avviare programmi specifici di formazione del personale penitenziario, capaci di distinguere tra la pratica religiosa e i segnali reali di radicalizzazione.

“Il carcere – osserva – funziona come una vera e propria scuola di reclutamento, esattamente come avviene con l’affiliazione ai clan mafiosi. Lì dentro si formano legami che, una volta fuori, possono trasformarsi in appartenenze a cellule terroristiche o in nuove gang criminali, specie quelle nigeriane”.

La denuncia riguarda anche la carenza cronica di polizia penitenziaria. Secondo Di Giacomo, gli istituti con una maggiore concentrazione di detenuti extracomunitari ed islamici continuano a registrare episodi di aggressioni al personale, senza che siano stati previsti i rinforzi necessari.

Il tema, ribadisce il sindacalista, non è nuovo. Già il Copasir aveva lanciato l’allarme almeno due anni fa, parlando del carcere come di un luogo particolarmente esposto al rischio di reclutamento jihadista. Per Di Giacomo, continuare con l’attuale impostazione significa sottovalutare un pericolo concreto che, soprattutto in questa fase di guerra in Medio Oriente, trova ulteriore linfa in un clima di odio verso l’Occidente.

L’appello è chiaro: servono programmi mirati, risorse per la formazione e un rafforzamento delle strutture. Altrimenti, avverte, il rischio è quello di vedere uscire dai nostri istituti “nuovi terroristi pronti ad agire”.

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