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Cronaca
09 Settembre 2025 - 14:29
Ex capo ultras Juventus, Lo Surdo patteggia tre anni e mezzo per estorsioni e legami con la ’ndrangheta
La parabola di Giacomo Lo Surdo, 44 anni, ex capo del gruppo ultras juventino degli “Arditi”, si chiude in tribunale con una condanna pesante, seppur frutto di un patteggiamento. Questa mattina, davanti alla giudice Ombretta Vanini, l’uomo ha accettato una pena di tre anni e mezzo di reclusione, a cui si aggiungono tre anni di libertà vigilata, misura disposta dal tribunale di Torino come ulteriore forma di controllo. Il suo legale, l’avvocato Domenico Peila, ha chiuso così una vicenda giudiziaria che da anni gravava sull’ex leader della curva bianconera, finito al centro di uno dei filoni più delicati delle inchieste sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Piemonte.
La posizione di Lo Surdo era stata stralciata prima dell’estate dal maxiprocesso che coinvolge Moncalieri, Carmagnola e anche il sindacato Filca-Cisl, costituitosi parte civile. Gli venivano contestati due episodi di estorsione, oltre all’accusa più pesante: associazione di stampo mafioso. Secondo gli inquirenti, infatti, sarebbe stato affiliato alla ’ndrangheta dal 2003 e avrebbe fatto parte dell’articolazione guidata dai fratelli Adolfo e Aldo Cosimo Crea almeno fino al 2 ottobre 2012. Una ricostruzione che inserisce la sua figura in un contesto criminale più ampio, in cui il tifo organizzato non è che un tassello di un mosaico di affari, pressioni e violenze.
Il nome di Lo Surdo emerge da un’indagine che ha scoperchiato i rapporti tra ’ndrangheta e mondo sindacale, fino a lambire il tessuto sociale ed economico di alcuni comuni della cintura torinese. L’accusa formulata dai pm Mario Bendoni, Paolo Toso e Marco Sanini parla chiaro: associazione mafiosa armata, estorsioni tentate e consumate, ricettazione, detenzione di armi. Un catalogo di reati che mostra come la presenza della criminalità organizzata non sia più confinata al Sud, ma abbia trovato sponde solide anche in Piemonte.
Il processo principale, che proseguirà il 18 settembre, vede imputati personaggi ritenuti dagli investigatori di primo piano. Per Francesco D’Onofrio, indicato come vertice della ’ndrangheta in Piemonte, la procura ha chiesto 12 anni e 2 mesi, sebbene la difesa respinga con decisione l’impostazione accusatoria. Domenico Ceravolo, ex sindacalista della Cisl, rischia 10 anni: secondo l’accusa era il factotum dei boss, l’uomo di collegamento con i mondi ufficiali. Per Rocco Costa la richiesta è di 8 anni e 4 mesi, per Antonio Serratore di 3 anni e 8 mesi (in continuazione di pena), mentre per Claudio Russo la procura ha chiesto 8 anni e 10 mesi. Complessivamente, oltre 38 anni di carcere sono stati chiesti dal pool torinese.
Il caso Lo Surdo, per quanto derubricato rispetto al maxiprocesso, è emblematico del filo sottile che lega il mondo ultras al crimine organizzato. In passato le cronache hanno raccontato come la curva sud della Juventus fosse terreno di interessi e pressioni, con ordini che – secondo gli inquirenti – arrivavano direttamente dalla Calabria. Non si trattava soltanto di cori e striscioni, ma di una vera e propria scalata organizzata, con la gestione di biglietti, merchandising parallelo e una forza di intimidazione capace di generare profitti.
Il tribunale di Torino ha scelto la via del patteggiamento, una soluzione che permette all’imputato di ottenere una pena ridotta, evitando un dibattimento lungo e complesso. Ma la condanna resta significativa, soprattutto perché riconosce l’appartenenza di Lo Surdo a un sistema di relazioni che travalica lo stadio e investe la società civile. La libertà vigilata per tre anni, oltre alla detenzione, è un segnale della necessità di monitorare a lungo la condotta di chi, in passato, ha intrecciato il proprio percorso con ambienti criminali radicati e pericolosi.
Il peso della vicenda non si misura solo in termini giudiziari. Per Torino e per il Piemonte è un’altra prova di come le mafie abbiano attecchito al Nord, infiltrandosi in settori apparentemente lontani dalla criminalità tradizionale: il sindacato, l’edilizia, il commercio e persino il tifo organizzato. È un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere le istituzioni e i cittadini, chiamati a non sottovalutare segnali che troppo spesso vengono liquidati come marginali.
La vicenda di Lo Surdo si intreccia così con una storia più grande, fatta di processi che negli ultimi anni hanno documentato la presenza stabile della ’ndrangheta in Piemonte. Il fatto che un ex leader ultras, simbolo di un gruppo radicato nella curva juventina, sia stato ritenuto parte di questo meccanismo criminale racconta meglio di mille parole quanto sia sottile il confine tra passione sportiva e interessi illeciti.
Ora la parola passa agli altri processi, con udienze destinate a fare luce su una rete di rapporti e complicità che, secondo la procura, avrebbe garantito alla ’ndrangheta piemontese non solo denaro, ma anche potere e legittimazione. Lo Surdo, intanto, dovrà scontare la sua pena, lontano da quella curva che un tempo guidava e che oggi resta segnata dall’ombra lunga della criminalità organizzata.
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