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08 Giugno 2025 - 00:23
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Sono adolescenti in cerca d’identità o piccoli "maranza", o se si preferisce teppisti, che crescono nell’impunità più totale? A Settimo Torinese, ennesimo episodio al Conad (ex Bennet), solita sequenza: ragazzini strafottenti, urla, vigilanza impotente, vigili urbani in campo e – colpo di scena – anche genitori col taglierino in mano. Letteralmente. E' successo nel pomeriggio di venerdì scorso. Un padre, esasperato, è intervenuto armato per “difendere” il figlio, picchiato poco prima, secondo quanto trapelato da testimoni. La situazione è degenerata al punto da richiedere l'intervento della polizia locale, che avrebbe identificato due minorenni.
E mentre la città si interroga, sui social impazza il solito balletto di commenti tra giustificazionismo e indignazione. C’è chi denuncia un degrado ormai quotidiano, chi difende “i ragazzi”, chi accusa gli adulti e chi si scandalizza del gesto estremo del genitore. Ma il punto vero è un altro: Settimo è stanca. E chi prova a filosofeggiare, raccontando la favola della “beata gioventù che fa le sue minchiate come le hanno sempre fatte tutti”, dimentica che le minchiate, una volta, si pagavano care. Prima si sarebbero presi una bella dose di schiaffoni fuori, il resto a casa dai genitori. Altro che pedagogia emotiva.
Anzi, parliamone. Sì, parliamo di lui: l’esperto da tastiera che ci illumina con profondissime riflessioni sociopedagogiche in salsa bio-pedagogica. Uno che ci spiega, con aria ispirata e toni da predicatore laico, che sputare sui passanti, devastare i tavolini, tirare pietre e lanciare uova “sono minchiate che si fanno da sempre”. Chi non ha fatto minchiate da adolescente?, si chiede il nostro novello Socrate del supermercato. Come se rubacchiare un chupa-chups negli anni ’80 fosse la stessa cosa che inseguire un coetaneo con un coltello nel 2025.
Ma poi lo dice pure con convinzione, come se fosse un merito: Anche io le facevo. E allora va tutto bene. Perché se le ha fatte lui, se le facevano i suoi amici, se il suo quartiere era il set di una versione low budget di Arancia Meccanica, allora non possiamo mica scandalizzarci. No, dobbiamo accogliere, capire, contestualizzare. Scegliere “lo sguardo giusto”. Tipo quello che evita di vedere i ragazzini strafottenti al Conad perché è troppo impegnato a scrivere post sulla “differenza tra devianza e marginalità”.
foto archivio
Perché no, sputare dal primo piano, tirare pietre, accerchiare coetanei, lanciare uova e bibite in mezzo a un centro commerciale, non rientra nel grande libro delle “bravate adolescenziali”. A meno che si voglia trasformare ogni teppista in un povero incompreso, ogni atto vandalico in un sintomo di disagio sociale, ogni genitore esasperato in un criminale.
E magari poi chiamare una bella cooperativa, cospargerla di denaro per un bel progetto educativo... Ma vaff...!
Un post su Facebook, tra i tanti, sintetizza bene il clima: “La zona commerciale è diventata invivibile. I tavolini del Conad sono stati rimossi per disperazione. Scooter e minicar sfrecciano in aree pedonali. E adesso arrivano anche i coltelli”. E il Comune? Tace. O peggio, manda in missione intellettuali da tastiera a spiegarci che “non bisogna giudicare”, “bisogna comprendere”, “bisogna scegliere lo sguardo giusto”. Magari lo sguardo rivolto altrove, verso una Settimo immaginaria fatta di laboratori scolastici e “valorizzazione delle differenze”.
E la sindaca Elena Piastra? In tutt'altre faccende affaccendate.
Nel frattempo, però, chi lavora nei negozi ha paura. I clienti si lamentano. E ogni pomeriggio è una roulette russa: tra ragazzini urlanti, genitori fuori controllo e vigilanti che si limitano ad alzare le spalle. E dire che sarebbe bastato un regolamento chiaro, qualche pattuglia fissa, controlli seri, magari un dialogo con le famiglie prima che fosse troppo tardi.
Invece no. Si preferisce raccontare che tutto va bene. Che sono solo quattro ragazzi. Che la baby gang è un’invenzione giornalistica. Che chi alza la voce è un fascista repressivo. E così, mentre si discute di semantica, la città si svuota di regole. I bambini imparano a bestemmiare nei parchi. Gli adolescenti testano i limiti dell’impunità. Gli adulti, per difendersi, portano i taglierini.
E c’è ancora chi, con aria sognante, conclude: bisogna imparare a capire le sfumature. Ecco, magari cominciamo col distinguere tra un adolescente che fa uno scherzo e un branco che devasta e terrorizza. Poi, se resta tempo, potremo anche parlare di filosofia.
E non stiamo parlando di episodi isolati. L’allarme è costante. Ogni giorno c’è una segnalazione nuova, ogni settimana un episodio che supera il precedente. Alla fine del pomeriggio, in zona Conad, sembra di entrare in una puntata di Black Mirror ambientata nella provincia italiana: ragazzini che urlano, spingono, sfidano, si filmano mentre fanno i bulli e ridono mentre si insultano a vicenda. La rimozione dei tavolini è solo il simbolo più evidente di una resa civile. Il segnale di una città che si piega al disordine e rinuncia a presidiare i suoi spazi.
E se qualche adulto prova a reagire – magari in modo sbagliato, esasperato, incosciente – si scatena l’accusa: “Non è il Far West!”. Giusto. Ma nemmeno lo Spazio Giovani Felice, diciamolo. Perché una cosa è sgridare, un’altra è impugnare un’arma, certo. Ma c’è anche differenza tra un ragazzo educato e un bullo organizzato in branco, tra la marachella e la sopraffazione.
Qualcuno su Facebook scrive: “Siamo alla frutta. Adulti senza maturità, ragazzi senza rispetto. Non ci sono più regole per nessuno”. E c’è chi sottolinea come anche i genitori siano spariti dal radar educativo: “Questi ragazzi stanno in giro fino a tardi, fanno quello che vogliono, e nessuno chiede dove sono, cosa fanno, con chi stanno. Poi però se succede qualcosa, giù lacrime e giustificazioni”.
Una città spaccata tra chi difende a oltranza e chi condanna a prescindere. Tra chi invoca psicologi e chi sogna il ritorno dello schiaffone educativo. Ma quello che manca davvero è una presa in carico collettiva. Una vera responsabilità da parte delle istituzioni, della scuola, delle famiglie, di chi amministra e di chi presidia.
Perché il degrado – quello vero – comincia quando si smette di chiamare le cose con il loro nome. Quando si accetta che sputare sui passanti sia “una ragazzata”. Quando si minimizza ogni violenza, ogni minaccia, ogni atto di prepotenza. Quando si perdona tutto, in nome di una comprensione che, a forza di estendersi, diventa complicità.
E allora, cari filosofi urbani, non andate solo a fare due passi al Conad, presidiatelo! Guardate negli occhi quei quindicenni strafottenti. Provate a spiegare loro il concetto di “non generalizzare” mentre si passano una lattina da tirare addosso a un coetaneo. Parlate loro di sfumature mentre rompono un cartello. Provateci e fateci sapere com'è andata...
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