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05 Giugno 2025 - 00:12
al lavoro
Avevamo scritto – con un tono forse troppo onesto per questi tempi così educati, gentili, attenti alla sensibilità diffusa – che il piazzale del Conad, a Settimo Torinese, è diventato un simbolo del degrado cittadino. Ce lo avevano raccontato i commercianti, i lavoratori, i cittadini esasperati: urla, bottiglie fatte esplodere, sedie lanciate, sputi ai passanti. Non era fantasia. Non era allarmismo. Era cronaca. Semplicemente cronaca. Tutto, maledettamente, vero!
In quella cronaca c’era anche una frase forte, durissima, volutamente scomoda: “Il futuro, quello vero, è già qui fuori e urla, sputa sui passanti e fa esplodere bottiglie”. Una frase pensata per disturbare. Per scuotere. E infatti ha funzionato benissimo: fosse caduto un meteorite al parco Berlinguer, forse avrebbe fatto meno rumore.
Il nostro articolo è diventato il bersaglio perfetto per il tiro al piccione social. Le reazioni non si sono fatte attendere: accuse di generalizzazione, moralismo, criminalizzazione dei giovani, terrorismo giornalistico. Un diluvio di pedagogia improvvisata, post indignati, analisi sociolinguistiche da divano. “I ragazzi non sono così”, dicevano. “Quel piazzale non è così”. “Vi siete inventati tutto”.
Poi, qualche settimana dopo, la realtà torna, testarda e concreta, a bussare alla porta. E lo fa con un post su Facebook. Firmato da un professore della scuola media Gobetti in ci si racconta, con tono serio e ispirato, che proprio quell’articolo – sì, proprio quello – è diventato l’avvio di un percorso educativo. I ragazzi lo hanno letto, studiato, analizzato, discusso. Hanno persino fatto una simulazione d’esame sopra. E poi, tappa finale: la gita. Dove? Naturalmente lì. Nel piazzale del Conad. Per “riabitare il territorio”, per “capire la città”.
E fin qui, tutto bello. Tutto nobile. Ma ci sono alcune frasi di un altro post che meritano attenzione. Tipo quella in cui si dice che l’articolo era “sbrigativo, semplificante, duro” – aggettivi che servono a salvare capra e cavoli: attacco alla stampa con uso postumo della stampa. Oppure quella in cui si spiega che “è mancata la voce dei ragazzi”. Verissimo. Ma sapete cosa è mancato ancora prima? La voce degli adulti. Degli educatori. Degli amministratori. Di chi doveva accorgersi del problema prima che a scriverne fosse un giornale. Di chi non c'era qui e che era assente pure là dove un ragazzo ha perso la vita, o laggiù dove di notte sparano fuochi d'artificio per avvisare che è arrivata la droga. Di chi vorrebbe non si parlasse di una città fuori controllo e poi, in giunta, istituzionalizza "zone rosse" senza dare troppo nell'occhio....
E poi c’è lei, l’assessora Chiara Gaiola, che – toh! guarda – passava per caso. Presente all’incontro con gli studenti come se nulla fosse, specialista nel comparire quando i toni sono già pacificati e l’aria è ripulita. La Gaiola che nei giorni delle proteste, delle segnalazioni, dei problemi veri, non s’è vista nemmeno di sfuggita. Ma appena c’è una bella occasione da catalogare sotto “laboratorio partecipato”, eccola: sorridente, dialogante, impeccabile. Con la cartelletta sotto braccio e la frase giusta pronta da dire. Un’icona di presenza intermittente.
E allora la domanda vera è questa: che valore sociale può mai avere un laboratorio costruito su una realtà che, fino al giorno prima, è stata pubblicamente negata, sminuita, ridicolizzata?
Perché i percorsi educativi sono una cosa seria. Ma non si costruisce nulla di vero se prima si finge che il problema non esista, salvo poi riapparire in versione “scuola e territorio” con tanto di assessora allegata. Questo non è educare alla cittadinanza. È mettere in scena un atto riparatore che ha il sapore di una toppa tardiva. È pedagogia da post-evento. È una gita moraleggiante costruita sui resti di una polemica che si poteva evitare, semplicemente leggendo prima e verificando meglio.
La verità è che un piazzale non si salva con una gita. E meno che mai con una visita dell’assessora. Quel luogo ha bisogno di interventi veri, duraturi, strutturali. Non di adulti che si materializzano solo per farsi fotografare accanto a un cartellone. Ha bisogno di una politica che stia dentro ai problemi, non solo nei comunicati stampa.
Altrimenti tutto questo teatro – ben confezionato, ben raccontato, ben intenzionato – serve solo a una cosa: a mettere una pezza pedagogica su un buco amministrativo. E così, l’esperienza educativa finisce per diventare l’ennesima occasione in cui la scuola assolve ciò che la politica ha ignorato.
Il ruolo della stampa, ce lo si consenta, è un altro. Non è quello di confezionare materiali didattici. Non è quello di raccontare storie a lieto fine. È dire quello che succede. Anche quando fa male. Anche quando non è spendibile per un progetto. Anche quando le frasi graffiano.
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