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Cronaca

Italia maglia nera per la sicurezza dei ciclisti: il nostro Paese è il più pericoloso d’Europa

Il rapporto PATH 2024 fotografa un rischio concreto e misurabile: infrastrutture carenti, cultura stradale assente e strade progettate solo per le auto. Un primato che uccide

Italia maglia nera

Italia maglia nera per la sicurezza dei ciclisti: con 5,1 morti ogni 100 milioni di chilometri pedalati, il nostro Paese è il più pericoloso d’Europa

Con 5,1 morti ogni 100 milioni di chilometri percorsi in bicicletta, l’Italia doppia la Francia e lascia lontani i modelli virtuosi del Nord Europa. Piste inesistenti, strade pensate per le auto, nessun rispetto per chi sceglie la mobilità sostenibile

Muoversi in bicicletta in Italia oggi non è solo una scelta ecologica, è un vero e proprio atto di coraggio. I numeri non mentono, anzi fanno paura. L’ultimo rapporto pubblicato dalla Partnership for Active Travel and Health (PATH) nel 2024 assegna all’Italia un primato di cui sarebbe stato meglio fare a meno: il più alto tasso di mortalità ciclistica d’Europa in proporzione ai chilometri pedalati. Con 5,1 decessi ogni 100 milioni di chilometri percorsi, il nostro Paese si colloca al vertice negativo di una classifica che misura il rischio reale di chi ogni giorno si muove su due ruote.

Per capire la gravità della situazione, basta confrontare questo dato con quello degli altri grandi paesi europei: la Francia si ferma a 2,9, l’Austria e il Belgio a 2,5, mentre nazioni come Germania, Irlanda e Svizzera oscillano tra l’1,1 e l’1,9. In fondo alla classifica, là dove la mobilità ciclabile è davvero integrata e protetta, ci sono i Paesi Bassi, con appena 0,9 decessi ogni 100 milioni di chilometri pedalati. È un abisso. Un distacco che non si spiega con il traffico o la densità urbana, ma con l’approccio politico e infrastrutturale alla bicicletta.

Il dato, va detto, non misura il numero assoluto di vittime, ma il rapporto tra le morti e i chilometri effettivamente percorsi dai ciclisti. È una metrica molto più precisa, che restituisce una fotografia drammatica del livello di pericolosità quotidiana. Chi va in bici in Italia ha più probabilità di morire rispetto a chi lo fa in qualsiasi altro Stato europeo. E il problema non è la bicicletta, ma il contesto in cui viene utilizzata.

Il peggio paese d'Europa per i ciclisti

Le cause di questo disastro sono sotto gli occhi di tutti e da anni denunciate da associazioni, comitati e urbanisti. Le piste ciclabili sono poche, frammentate e scollegate. Quando ci sono, spesso sono ritagliate con una mano di vernice su marciapiedi o corsie promiscue, senza alcuna barriera protettiva dal traffico automobilistico. Le strade urbane sono disegnate per favorire la velocità delle auto, non la convivenza con mezzi leggeri e lenti. Nei piccoli comuni, la situazione è anche peggiore: zero infrastrutture, segnaletica assente, e nessun piano di mobilità alternativa.

In questo quadro desolante, la responsabilità non è solo dei progetti mancati, ma anche di una cultura stradale arretrata e aggressiva. In Italia, chi va in bici è spesso percepito come un ostacolo, un intruso, un soggetto vulnerabile ma anche fastidioso. Automobilisti che sfiorano i ciclisti a pochi centimetri, clacson, sorpassi in curva, velocità fuori controllo: comportamenti che altrove verrebbero sanzionati duramente, da noi passano sotto silenzio.

A rendere tutto più insopportabile è l’assenza di una strategia nazionale coerente. Si parla di mobilità sostenibile solo in occasione dei convegni o nelle giornate ecologiche, mentre i fondi per le ciclabili vengono tagliati a ogni legge di bilancio. I Comuni più attivi sono lasciati soli, privi di strumenti normativi forti, mentre i ministeri si rimpallano le competenze. Il risultato è che ogni intervento è isolato, privo di continuità, e spesso osteggiato da chi difende lo status quo motorizzato.

Il rapporto PATH è un documento tecnico, ma anche una denuncia politica. Mostra che non si tratta di fatalità, ma di scelte mancate. E che se non si inverte la rotta, la bici continuerà a essere un mezzo per pochi temerari, invece che una soluzione concreta ai problemi del traffico, dell’inquinamento e della salute pubblica. Perché non bisogna dimenticare che ogni ciclista in più è un’auto in meno, un’ambulanza in meno, un polmone più sano. Ma per renderlo possibile, servono investimenti seri, leggi severe, rispetto culturale e visione urbanistica.

In attesa di un cambiamento strutturale, le associazioni che difendono la mobilità attiva continuano a chiedere zone 30 nei centri urbani, scuole di educazione stradale nelle scuole, incentivi per chi pedala e sanzioni per chi mette in pericolo gli altri. E soprattutto una verità scomoda da far accettare a chi ancora pensa che la strada sia solo per chi guida: il diritto a vivere e spostarsi in sicurezza vale per tutti, anche per chi sceglie due ruote e due gambe, invece di quattro ruote e un motore.

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