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02 Giugno 2025 - 11:58
Tradimento istituzionale: a Torino, condannati dipendenti pubblici per circonvenzione d'incapace
Un incarico delicato, un ruolo pubblico, una fiducia tradita. La Corte d’Appello di Torino ha condannato a un anno e otto mesi di reclusione tre dipendenti dell’Ufficio Tutele del Comune di Torino – due operatrici socio sanitarie (OSS) e un’educatrice – per circonvenzione d’incapace, al termine di una vicenda che ha scosso profondamente l’ambiente dei servizi sociali. Due delle imputate vedono confermata la sentenza di primo grado, mentre la terza è stata assolta dall’accusa di peculato, legata a prelievi di denaro mai provati oltre ogni dubbio.
I fatti risalgono al biennio 2018-2019 e ruotano attorno alla figura di un uomo di 77 anni, analfabeta, fragile e solo, formalmente sotto la tutela dei servizi sociali. Una delle tre imputate era stata nominata amministratrice di sostegno, con il compito di tutelarlo nelle scelte più complesse della vita quotidiana. Ma quella che doveva essere una protezione si è rivelata una manovra subdola, costruita con cura, fino a indurre l’anziano a firmare un testamento in favore delle tre operatrici, in palese contrasto con la logica e la funzione del ruolo ricoperto.
La trappola si è chiusa definitivamente nel 2020, quando l’uomo muore e la figlia – rimasta all’oscuro di tutto – scopre che il patrimonio del padre è stato destinato a chi avrebbe dovuto solo assisterlo. Da lì, la denuncia e l’apertura di un’indagine che ha ricostruito passaggi inquietanti, tra cui la gestione delle decisioni personali, l’isolamento dell’uomo da potenziali influenze esterne e la redazione del testamento, firmato nonostante la sua condizione di estrema vulnerabilità cognitiva e culturale.
Dipendenti comunali licenziati
Il cuore giuridico della vicenda è nella qualificazione del reato: circonvenzione d’incapace, ossia l’abuso della condizione di debolezza psichica o culturale di una persona per trarne un vantaggio. Ed è proprio su questo che si è concentrato il dibattimento, con la Corte che ha riconosciuto l’indebita influenza esercitata sull’uomo da parte delle imputate, sfruttando la propria posizione istituzionale e la fiducia legata al ruolo.
Le indagini avevano inizialmente coinvolto anche alcuni movimenti di denaro effettuati da una delle assistenti sociali, ma in appello la Corte ha assolto l’imputata dall’accusa di peculato, stabilendo che non ci fossero prove sufficienti per dimostrare che quei prelievi avessero finalità illecite. Resta però il giudizio pesante sull’insieme dei comportamenti: una condotta giudicata incompatibile con la funzione pubblica e contraria alla deontologia del lavoro di cura.
Il caso ha acceso un faro inquietante sul sistema delle tutele pubbliche, in particolare su come vengono gestite le nomine di amministratori di sostegno e su quali strumenti di verifica siano attivati per impedire abusi di potere su soggetti fragili. La vicenda del 77enne torinese ha messo in luce una falla nel sistema, dove ruoli e doveri istituzionali possono trasformarsi, senza controlli, in occasioni di manipolazione e interesse personale.
Se da un lato la sentenza riconosce la gravità del reato, dall’altro lascia aperte domande sul monitoraggio delle funzioni sociali e sull’efficacia dei meccanismi di trasparenza nei servizi pubblici. A pagarne le conseguenze, questa volta, non è stato solo un uomo anziano e indifeso, ma anche la credibilità dell’istituzione stessa, chiamata ora a ricostruire fiducia e vigilanza.
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