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Ombre su Torino
31 Maggio 2025 - 17:55
16 aprile 1952, ore 21.30.
Una serie di telefonate ha mobilitato centinaia di uomini appartenenti a tutte le forze dell’ordine disponibili a Torino. Camionette e volanti della celere, il capo della squadra mobile, il questore e i suoi due vice, il comandante cittadino dei Carabinieri con ufficiali e sottoufficiali della Squadra interna investigativa, un sostituto procuratore e il capo dell’Ufficio politico.
In un clima da colpo di stato si dirigono tutti in collina, in via Villa della Regina. Arrivati al numero 24 si trovano davanti a una folla radunata intorno a una Fiat 1100 che presenta una macchia di sangue in corrispondenza dello sportello del guidatore. Le voci si sovrappongono ma dicono tutti la stessa cosa: c’è stato un omicidio.
Ma il cadavere dov’è? A spiegare cosa è accaduto è l’ingegner Aldo De Giuli. Passa di lì circa 15 minuti prima quando, improvvisamente, due donne lo bloccano mettendosi in mezzo alla strada. Si accorge che stanno prestando le cure a un uomo che perde sangue dal torace e decide di portarlo con la sua auto alla clinica privata Mater, a poche centinaia di metri.
Purtroppo, però, l’uomo ci arriva già morto e De Giuli non può far altro che riportarlo a casa, in una villetta proprio davanti all’automobile e alla macchia di sangue. Un tale dispiegamento di investigatori è dovuto al fatto che la vittima non è uno qualsiasi. Quel corpo senza vita appartiene all’ingegner Eleuterio “Erio” Codecà, il direttore della sezione veicoli industriali e dei trattori agricoli della Fiat, la SPA.
Nato a Ferrara nel 1900, si trasferisce a Torino giovanissimo ed entra in azienda nel 1926. Poco dopo viene spedito a gestire la filiale di Bucarest, restando in Romania fino al 1935. È in quest’anno che viene mandato a Berlino nominato a capo della Deutsche Fiat, tornando in Italia dopo l’8 settembre 1943.
Il passato internazionale è centrale negli ultimi anni della sua vita. Da una parte gli avversari (più o meno politici) gli imputano il diretto contatto coi nazisti e dall’altra la Fiat ne riconosce il prestigio tanto che, ad esempio, nell’autunno del 1951 al Salone dell’automobile viene incaricato di presentare i nuovi modelli di auto al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Nel mezzo, anche vista la dinamica dell’omicidio, in molti pensano che l’ingegnere nascondesse segreti, e, in particolare, traffici di materiali e progetti con i paesi dell’est Europa, in un periodo in cui gli USA vietavano ai paesi dell’Alleanza Atlantica di avere contatti oltre cortina.
Il 16 aprile 1952 Codecà esce intorno alle 21,15 per portare il cane a fare una passeggiata. Attraversa la strada e, dopo aver fatto salire il cocker sul sedile passeggero, si sta accingendo ad aprire la portiera lato guidatore. Il killer lo colpisce mentre ha la mano sulla maniglia, ponendosi di fianco e trafiggendolo con un singolo proiettile in grado di perforargli il fegato, trapassargli il cuore e uscire dal costato sinistro. Un solo colpo sparato da uno Sten, un mitra con il quale esclusivamente un professionista saprebbe sparare un’unica pallottola.
Vista la totale assenza di testimoni oculari, le indagini si rivelano imponenti ma necessariamente rivolte in tutte le direzioni. Si pensa ad un omicidio a scopo di rapina ma Codecà muore con addosso il portafoglio e 80 mila lire. Anche la pista passionale cade subito e gli inquirenti virano sulla vendetta politica, approfondendo anche gli eventuali rancori che qualche ex operaio poteva serbare nei suoi confronti.
Sentita la moglie, i colleghi e i dipendenti tutti concordano: l’ingegnere non aveva mai ricevuto minacce, non aveva nemici. Il suo incarico prevedeva rari contatti con il personale perché la sua era un’attività puramente tecnica e, comunque, viene generalmente definito conciliante ed equilibrato. Si scopre, oltretutto, che sono oltre due anni che nessuno viene licenziato alla Fiat-SPA anche se, già dal giorno successivo, sui muri dello stabilimento iniziano a comparire delle scritte inquietanti come “E uno! Attenzione il primo è servito, gli altri seguiranno!”. Perquisizioni, retate e arresti si susseguono a ritmo continuo. Vengono indagate centinaia di persone e vengono archiviate migliaia di pagine, dieci volumi, quasi 30 kg di pezzi di carta uno sopra l’altro.
Non servono a niente, non accade nulla per tre anni. Fino al 5 luglio 1955.
Quel giorno, in un bar di via Passalacqua, viene fermato Giuseppe Faletto. 34 anni, si arrabatta comprando pesce a Porta Palazzo e rivendendolo in periferia e in provincia. Soprannominato “Lambretta” perché sempre in giro su un motorino sono gli altri suoi nomignoli a spiegarne la personalità: “Briga” e, soprattutto, “il Boia della Valsusa”. Nella resistenza durante la Seconda guerra mondiale nella zona di San Gillio, Pianezza e Venaria, Faletto si distingue per il coraggio ma anche per una crudeltà che lo fa condannare a morte due volte dai partigiani stessi.
Sfuggito ai liberatori e ai fascisti, viene processato per rapina nel 1947 e, una volta finito nelle maglie dell’inchiesta Codecà, viene accusato di sette omicidi durante il periodo bellico. Ma cos’ha la polizia sul suo conto nel caso dell’industriale? La sua voce. Indicato da due amici come una persona facile alla violenza e in possesso di un’arma compatibile con quella del delitto, viene coinvolto in una serie di cene in casa di uno dei due a Druento in cui le conversazioni vengono registrate furtivamente con un magnetofono sotto il tavolo. Qui i due compari, tra un bicchiere di vino e l’altro, gli propongono (per 20 milioni di lire) di uccidere l’allora presidente della Fiat Vittorio Valletta.
Gli dicono di averlo contattato perché “sai come si fa, come hai fatto con Codecà” e Faletto dà il suo assenso, confermando di essere il killer dell’ingegnere e raccontando numerosi particolari di quella sera in collina. A questi aggiunge anche un buon armamentario ideale: ammazza per il comunismo, per finire il lavoro dei partigiani, per un mondo migliore.
Arrestato, il pescivendolo riferisce che quelle parole erano solo vanterie, cose che aveva letto sui giornali e che il suo unico scopo era quello di farsi consegnare un anticipo sul “lavoro” e poi scappare via. Rimane in galera per tutta l’istruttoria del processo ma, nel 1958, viene assolto per l’uccisione di Codecà venendo condannato per i suoi crimini durante la resistenza a un totale di 15 anni.
Avendo tralasciato altri spunti e concentrando l’attenzione su una matrice che avrebbe anticipato il terrorismo politico di una ventina di anni, le indagini tornano al punto di partenza. Il passare del tempo fa ingiallire le pagine delle testimonianze, porta tanti protagonisti e testimoni nell’aldilà, spegne l’interesse per la vicenda, anche per il mutare delle condizioni geopolitiche che ne accompagnavano lo svolgimento.
La spessa coltre di nebbia che si è posata sul caso Codecà ha visto un paio di spiragli di luce in tempi relativamente recenti. Nel 2002 l’ex senatore del PCI Lorenzo Gianotti ne scrive un libro, accusando gli inquirenti, in pieno anticomunismo viscerale da Guerra Fredda, di avere imboccato la “pista rossa” tralasciando il resto. Parla del ritrovamento di biglietti scritti in un linguaggio cifrato trovati nei cassetti della scrivania del Direttore e mai decrittati e si concentra su alcuni traffici con la Polonia, soprattutto di carbone, di cui l’assassinato sarebbe stato garante e protagonista in prima persona.
Documentazione scottante viene poi fuori nel 2019 per merito del ricercatore Roberto Gremmo. Nel suo libro “Il Boia della Valsusa” riporta uno scritto risalente al 5 settembre 1962, conservato fino ad allora nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Questo è relativo a una indagine della polizia del Regno Unito che, nello stesso anno, aveva arrestato una ragazza inglese che aveva vissuto a Torino.
Coinvolta in una truffa, al momento del fermo aveva consegnato la testimonianza su carta di un giornalista italiano, Edoardo Morello, con cui aveva avuto una relazione.
In questo si legge: “l’Ingegner Codecà è stato ucciso per ordine del Cac (Comitato azione clandestino) perché in possesso di informazioni riguardanti la vendita di brevetti industriali segreti effettuata da industriali italiani ai paesi di Oltrecortina. (…) Codecà, informato dalla moglie, si indirizzò così al dirigente della Spa di quell’epoca. (…) Il dirigente generale rispose all’Ingegnere Codecà che ‘era pazzo’ e che nulla di quanto riferiva corrispondeva alla realtà. L’Ing. Codecà minacciò di rivelare il fatto alla Polizia italiana. Fu allora che da parte dei dirigenti italiani fu decisa la sua fine. Non conosco il nome della persona che prese contatto con il Cac di marca comunista. Fu comunque chiesto di ‘far fuori’ Codecà, (…) Il Cac rispose affermativamente. L’incartamento fu trasmesso a Roma tramite un ufficio commerciale di Via Frattina. Dopo qualche giorno, lo pseudo ufficio commerciale inviò un suo delegato a Torino con le disposizioni del caso. A Torino il delegato prese contatto con un gruppo specializzato del Cac. La cifra di ricompensa fu decisa in 5 milioni di lire”.
Sempre nello stesso incartamento anche un appunto di un informatore della Questura di Torino datato 3 febbraio 1953 e riguardante il conte Giancarlo Camerana, allora vicepresidente della Fiat e il maggiore dei Carabinieri Roberto Navale, capo della sicurezza Fiat fino al 1945.
“Il conte Camerana ha chiamato il Maggiore Navale per riferirgli circa quanto deciso dalla Fiat in merito all’affare Codecà. Come era prevedibile la Fiat ha detto che non se ne fa niente. Personalmente quanto sopra mi convince che la stessa Fiat ha tutto l’interesse di non venire in chiaro nella faccenda perché alcuni suoi grossi dirigenti sono implicati direttamente o indirettamente. Il Maggiore Navale ha pensato bene di non insistere”.
Forse tutte queste “rivelazioni” sono solo frutto della fantasia di chi le ha riportate, un po’ come le “confessioni” di Faletto. Forse non c’entra la guerra fredda, la politica o la lotta di classe.
L’unica cosa certa sembra essere che, a più di 70 anni dal delitto Codecà, non si verrà mai a sapere il movente e soprattutto il nome dell’assassino.
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