Una chat su Telegram, un giro di contenuti proibiti e un'indagine partita per tutt’altra ragione. Dentro un’aula del Tribunale di Torino, si è concluso uno dei casi più controversi e spinosi degli ultimi mesi: un giovane di 22 anni è stato assolto dall’accusa di detenzione e condivisione di materiale pedopornografico. La sentenza, emessa con la formula “perché il fatto è di lieve entità”, pur confermando la presenza e lo scambio di contenuti illeciti, ha fatto esplodere un dibattito giuridico, morale e scientifico su come venga interpretata e applicata oggi la normativa in materia di pornografia minorile.
Tutto è cominciato con un’indagine che non aveva, in origine, nulla a che fare con la pedopornografia. Un altro ragazzo, coetaneo dell’imputato, era stato segnalato per molestie nei confronti di una ragazzina: le chiedeva insistentemente foto intime. Quando gli investigatori hanno sequestrato il suo cellulare, si sono imbattuti in una chat condivisa tra più ragazzi, nella quale giravano contenuti esplicitamente pedopornografici. È da lì che è stato identificato il 22enne oggi al centro del caso.
Nel suo smartphone, oltre alla partecipazione alla chat, è emersa un’altra immagine incriminata, trovata nella memoria. Ma, secondo quanto stabilito dal giudice, non vi era volontà chiara di possesso: quell’immagine sarebbe apparsa sul dispositivo navigando alcuni siti, non scaricata o salvata deliberatamente. Questo aspetto ha inciso sull’assoluzione, insieme alla valutazione complessiva del comportamento del ragazzo, che — pur partecipando al gruppo — non avrebbe avuto un ruolo centrale nella circolazione dei file.
A sollevare perplessità è però la motivazione della sentenza, che ha riconosciuto l’illiceità del materiale ma ha definito il reato come “di lieve entità”. Un concetto previsto dal codice penale, che consente l’esclusione della punibilità in caso di condotte marginali, prive di intento commerciale o di diffusione sistematica. Tuttavia, quando si parla di minori oggetto di abuso sessuale, il rischio di sminuire l’impatto reale di ogni singolo atto — anche digitale — è concreto e pericoloso.

L’articolo 600-ter del Codice Penale stabilisce che chiunque produce, diffonde, distribuisce, trasmette, pubblicizza, importa, esporta, offre, vende o cede materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da 25.822 a 258.228 euro. La sola detenzione — anche per uso personale — è punita con reclusione da uno a cinque anni. Tuttavia, l’articolo 600-quater.1 introduce la clausola della “lieve entità”, che consente sanzioni attenuate o addirittura l’assoluzione se la condotta è episodica, involontaria o marginale.
Una previsione che ha senso giuridico quando c'è una reale sproporzione tra il fatto e la pena, ma che rischia di diventare una via d’uscita pericolosa in casi in cui non è il numero dei file a fare il danno, ma l’orrore che ogni singola immagine rappresenta. Lo ha spiegato bene la criminologa Francesca Vitale: “Ogni contenuto pedopornografico è una testimonianza di un crimine in atto, e chi lo condivide, anche per gioco o curiosità, partecipa a quella violenza”.
Il profilo di chi consuma o scambia questo tipo di materiale è variegato. Non si tratta sempre — o solo — di pedofili nel senso clinico. Secondo gli esperti, l’età digitale precoce, l’accesso non filtrato ai contenuti e la deresponsabilizzazione tipica dei gruppi virtuali, possono creare situazioni di trasgressione collettiva in cui il limite tra “scherzo” e reato viene annullato. Ma questo non significa che il danno sia minore. Lo spiega il neuropsichiatra Carlo Melzi: “In alcuni giovani, soprattutto nei maschi tra i 18 e i 25 anni, si osserva una soglia empatica molto bassa, unita alla convinzione di anonimato e impunità nei gruppi online. Sono individui che non si riconoscono come responsabili del danno che contribuiscono a perpetrare”.
Altra cosa è invece la pedofilia intesa come disturbo psichico persistente: un orientamento sessuale deviato che richiede trattamento clinico, farmacologico e psicoterapeutico. In Italia esistono pochissimi centri specializzati: tra i più noti, il CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), che ha avviato protocolli di recupero volontario per soggetti a rischio. Ma manca un sistema pubblico capillare e accessibile, e la maggior parte dei casi resta non trattata fino a quando esplode in un reato.
La sentenza torinese apre dunque un fronte. Da una parte la necessità di non criminalizzare ogni atto digitale dei giovani senza valutare il contesto, dall’altra il timore che si instauri una soglia di tolleranza implicita su comportamenti che restano gravi, anche quando appaiono episodici. Il diritto cerca equilibrio. Ma il rischio di abbassare la guardia sulla pornografia minorile, perché “di lieve entità”, è un pericolo che la società non può permettersi. Perché dietro ogni file, c’è una vittima vera, viva, minorenne. E ogni click può trasformarsi in una nuova violenza.