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Cronaca
28 Maggio 2025 - 10:12
Torino, la tragedia del piccolo Tito, morto a 10 mesi dopo un errore chirurgico (foto archivio)
Aveva appena dieci mesi Tito quando è entrato in sala operatoria all’ospedale Regina Margherita di Torino, per un intervento programmato che avrebbe dovuto correggere un’anomalia polmonare congenita, diagnosticata già durante la gravidanza. Un’operazione delicata ma necessaria, secondo i medici. Era il 15 aprile 2021. Quella sala, invece di salvarlo, lo ha consegnato a una morte assurda, una fine che oggi è al centro di un processo che scava tra errori, omissioni e responsabilità sanitarie.
L’inchiesta, coordinata dal pubblico ministero Francesco La Rosa, ha portato alla luce un errore gravissimo: al posto di recidere il vaso anomalo che ostacolava la funzionalità del polmone, i chirurghi avrebbero tagliato l’aorta addominale. Un errore chirurgico devastante, che sarebbe rimasto invisibile per ore, fino al collasso del bambino. Dalle 17 alle 20, Tito è rimasto in sala operatoria. Alle prime luci dell’alba del giorno dopo, è morto. E la madre, che la sera precedente aveva ricevuto rassicurazioni da chi stava curando suo figlio, ha saputo la verità solo quando era troppo tardi.
Nove medici furono inizialmente iscritti nel registro degli indagati. Ma la giustizia ha progressivamente circoscritto le responsabilità. Tre i rinvii a giudizio. Il primo è Paolo Lausi, il chirurgo proveniente dalle Molinette, condannato a due anni di reclusione. Il secondo è Francesco Gennari, primario del Regina Margherita, che è stato assolto. Il terzo è Daniele Mirabile, l’anestesista, che ha scelto il rito ordinario e dovrà rispondere in aula delle sue azioni – o delle sue omissioni. È accusato di non aver monitorato adeguatamente le condizioni di Tito durante le ore cruciali dell’operazione.
Tragedia al Regina Margherita
Il processo, oggi, è entrato nel vivo. Il pm La Rosa ha dichiarato con fermezza che “la morte di Tito poteva essere evitata”. Ha puntato il dito contro la mancanza di controllo, la sottovalutazione dei segnali clinici, il vuoto comunicativo tra anestesisti e chirurghi. Una catena di errori che, nella narrazione dell’accusa, si è spezzata troppo tardi. E che ora rischia di essere raccontata, ancora una volta, in ritardo.
Un milione di euro. È questa la cifra del risarcimento riconosciuto ai genitori di Tito, che per questo motivo hanno deciso di non costituirsi parte civile. Ma la scelta non cancella il bisogno di verità. Anzi, lo amplifica. Perché l’assenza in aula della famiglia non toglie valore al processo: lo eleva a caso esemplare, a cartina di tornasole della sanità che non funziona, della medicina che sbaglia, dei protocolli che non bastano.
Il nome di Tito, oggi, è diventato simbolo di ciò che non dovrebbe mai accadere. È il volto innocente di una tragedia che impone di guardare dentro alle sale operatorie pediatriche con occhi più severi, di pretendere competenze specialistiche, strumenti aggiornati, attenzione maniacale. Il suo caso pone domande feroci: si poteva evitare? chi doveva intervenire? come è possibile sbagliare un vaso sanguigno in un corpo così piccolo?
Le risposte arriveranno, forse, solo con la sentenza. Ma la cronaca, intanto, deve raccogliere la voce di questa storia. Perché Tito, a soli dieci mesi, è diventato protagonista di un processo che riguarda tutti: medici, famiglie, ospedali, istituzioni. E la speranza, ora, è che il suo nome resti inciso non solo nelle carte giudiziarie, ma in ogni scelta che verrà fatta per evitare che un altro bambino muoia per una svista.
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