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Cronaca

Yaqeen, la bambina che regalava speranza tra le macerie: uccisa a Gaza

Aveva undici anni, un sorriso che sfidava le bombe, e un forno di terracotta con cui insegnava al mondo che la vita si può impastare ogni giorno, anche sotto le bombe

Addio a Yaqeen

Yaqeen, la bambina che regalava speranza tra le macerie: uccisa a Gaza

Non portava un’arma, non indossava una divisa. Portava mollette colorate tra i capelli e una pettorina umanitaria troppo grande per lei, ma che indossava con orgoglio. Si chiamava Yaqeen Hammad, aveva undici anni e un solo obiettivo: fare del bene, anche quando il mondo attorno a lei sembrava avere dimenticato cosa volesse dire. Venerdì scorso, a Deir el Balah, la sua voce si è spenta sotto le macerie di un bombardamento israeliano. Ma non è bastato a zittirla. Perché Yaqeen non era solo una bambina: era la luce che Gaza non si aspettava. E che ora, dopo la sua morte, non può più dimenticare.

I suoi video su Instagram raccontavano una storia che i notiziari non sanno scrivere. Lei, minuscola, dietro un banco di distribuzione di giocattoli e pane. Lei che forma cuori con le mani davanti alla fotocamera. Lei che diceva: “Cerco di portare un po’ di gioia agli altri bambini, perché dimentichino la guerra”. Lo diceva con la voce ferma, come se avesse quarant’anni e non undici. Come se sapesse che il tempo, per lei, sarebbe stato poco. Al suo fianco, sempre, Mohamed, il fratello maggiore, operatore umanitario e complice delle sue piccole grandi missioni. Insieme distribuivano vestiti, pane, sorrisi. Insieme cercavano di ricucire una quotidianità fatta a pezzi.

Chi l’ha vista almeno una volta sullo schermo, non la dimentica. Yaqeen non chiedeva nulla, offriva tutto. In un luogo dove i rifugi crollano, lei offriva rifugio morale. E ora, a poche ore dalla sua morte, la sua immagine rimbalza ovunque: cuori digitali, testimonianze commosse, frasi in arabo, inglese, italiano. Un utente ha scritto:Non aveva armi. Aveva un sorriso. E un forno di terracotta”. E quel forno – simbolico o reale – è diventato il centro emotivo di una resistenza diversa: quella fatta con le mani nella farina, con i capelli raccolti maldestramente, con lo sguardo rivolto verso la vita.

Il fotoreporter Mahmoud Bassam, tra i primi a raccontarne l’impegno, ha scritto parole che graffiano: “Avrebbe dovuto essere a scuola. Invece cercava di curare le ferite della sua terra. Non ci sono parole. Assolutamente non ci sono parole”. Le sue foto oggi circolano come manifesti senza tempo, piccoli altari digitali di una martire senza colpa, caduta mentre cercava di salvare gli altri.

Ma Yaqeen non è sparita. La sua voce è diventata eco di coscienza, da Gaza a Ivrea, dove una marcia in sua memoria ha sfilato per le vie del centro. Giovani e adulti, in silenzio, con cartelli semplici: “Per Yaqeen. Per tutti i bambini della guerra”. Nessun simbolo politico. Solo umanità. Solo dolore e rispetto.

Non sappiamo chi sarà il prossimo. In un conflitto che si mangia i nomi prima ancora dei corpi, ogni bambino è un bersaglio, ogni sogno un crimine. Ma Yaqeen ha lasciato un’eredità che nemmeno la polvere di un’esplosione può cancellare: la certezza che la bontà è possibile, anche dove nessuno la cerca più.

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