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Cronaca
07 Maggio 2025 - 23:50
Demba Seck, i video hot e il pm compiacente: così è stata cancellata la prova del reato
Non un errore. Ma un piano preciso per aiutare Demba Seck a farla franca. Le motivazioni della sentenza depositate oggi dal giudice per le indagini preliminari di Milano, Luigi Iannelli, mettono nero su bianco quello che fino a qualche mese fa sembrava inimmaginabile: un pubblico ministero della Repubblica, Enzo Bucarelli, ha consapevolmente impedito l’acquisizione di prove fondamentali in un’indagine per revenge porn a carico del calciatore senegalese, all’epoca tesserato per il Torino FC.
Una condotta giudicata talmente grave da costare all’ex pm – oggi trasferito a Genova come giudice civile – una condanna a un anno, nove mesi e dieci giorni, con pena sospesa e senza menzione nel casellario. Ma la parte più esplosiva della vicenda emerge solo ora, con la pubblicazione delle motivazioni: Bucarelli ha agito per “aiutare” Seck, evitando che l’indagine producesse reali conseguenze giudiziarie o reputazionali. E per farlo, ha usato l’unico strumento che aveva in mano: la sua funzione di magistrato inquirente.
Il cuore della vicenda risale al febbraio 2023, quando l’ex fidanzata di Seck, Veronica Garbolino, residente a Ciriè, si presenta in procura per denunciare il calciatore. Racconta che durante la relazione è stata filmata senza il suo consenso in momenti sessualmente espliciti, e che quei video erano circolati su WhatsApp, inoltrati ad almeno due persone, tra cui il compagno di squadra Sasa Lukic. La giovane, che lavorava in una nota discoteca torinese, sostiene di aver scoperto l’esistenza di quei filmati solo dopo la fine della storia.
L’inchiesta, affidata alla procuratrice aggiunta di Milano Tiziana Siciliano e alla pm Giancarla Serafini, si rivela da subito scottante. Ma ciò che avviene durante le indagini va ben oltre la gestione anomala di un fascicolo. Secondo quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza e confermato dal giudice Iannelli, Bucarelli partecipò personalmente alla perquisizione del cellulare di Seck, ma evitò deliberatamente di disporne il sequestro. Anzi, fece molto di più: cancellò i due video incriminati direttamente dal dispositivo, rendendo impossibile la formazione della prova.
Non solo. La sera prima della perquisizione, il magistrato contattò Marco Pellegri, team manager del Torino, per informarlo che l’indomani la polizia si sarebbe presentata allo stadio Filadelfia. Una comunicazione definita dal giudice «occulta e indebita», che secondo la sentenza «traduce un intento chiaro di interferenza nel corretto sviluppo delle indagini».
E proprio qui sta il punto più inquietante. Bucarelli non era un pubblico ufficiale qualunque che orbitava attorno all’indagine: era il titolare del fascicolo, il coordinatore dell’attività investigativa. Scrive il giudice Iannelli: «Non era, semplicemente, un pubblico ufficiale più o meno vicino alle indagini aperte nei confronti di Seck, ma ne era addirittura il titolare e il coordinatore». Per questo motivo, non può parlarsi di leggerezza, superficialità o svista: l’azione di Bucarelli è descritta come deliberata, finalizzata a impedire che la prova fosse acquisita, conservata, valutata.
Lo stesso verbale redatto al termine della perquisizione – definito «sui generis» – appare costruito per giustificare l’inattività investigativa. In altre parole, per archiviare tutto nel silenzio e senza conseguenze, «prima che si formasse alcuna prova in sede giudiziaria».
Nella sentenza vengono riconosciute a Bucarelli le attenuanti generiche, per il comportamento processuale collaborativo: si è sottoposto a interrogatorio, non si è sottratto alle domande, ha mantenuto un atteggiamento definito “corretto” in aula. Ma queste attenuanti non bastano a neutralizzare la sensazione di una giustizia capovolta, dove chi doveva difendere la parte offesa ha scelto invece di tutelare l’indagato.
Un indagato che, come è noto, vive e lavora in un ambiente dove l’immagine è tutto. Un calciatore professionista, un volto noto, un asset per la società sportiva. Il dubbio – mai esplicitato nella sentenza, ma inevitabile per chi osserva da fuori – è che il comportamento del magistrato sia stato inquinato da questa pressione ambientale, dal timore di un “caso mediatico”, dal riflesso di un sistema che troppo spesso ha trattato i personaggi famosi con guanti bianchi.
Il caso Bucarelli non è solo una vicenda giudiziaria. È una ferita aperta nel rapporto tra cittadini e giustizia. Una ferita inferta da chi indossava la toga, ma ha scelto di comportarsi come un difensore d’ufficio di chi era sotto indagine. Ed è anche, inevitabilmente, un colpo alla fiducia di chi – come Veronica Garbolino – ha trovato il coraggio di denunciare e si è vista strappare la possibilità di essere tutelata fino in fondo.
Perché quando è la giustizia a insabbiare le prove, non resta che il sospetto. E la solitudine.
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