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Cronaca
07 Maggio 2025 - 18:54
Primario arrestato per violenze sessuali e stalking su colleghe: 32 episodi in 45 giorni, clima di omertà in corsia
Un caso giudiziario scabroso e allarmante ha travolto l’ospedale civile di Piacenza, dove un medico primario è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale aggravata e atti persecutori. L’uomo, la cui identità è al momento coperta da riserbo investigativo, è stato posto agli arresti domiciliari, mentre gli inquirenti hanno proceduto con le perquisizioni del suo studio e della sua abitazione, alla ricerca di ulteriori elementi di prova.
Tutto è partito dalla denuncia coraggiosa di una delle vittime, una dottoressa del reparto, che ha raccontato di essere stata costretta a subire atti sessuali non consenzienti all’interno di una stanza chiusa, luogo diventato simbolo di una violenza esercitata non solo sul corpo, ma anche sullo spazio e sul tempo del lavoro. Da quel racconto è scaturita un’indagine serrata, con l’impiego di intercettazioni ambientali e telefoniche che hanno documentato, nel giro di appena 45 giorni, ben 32 episodi di abusi.
Le vittime – medici e infermiere – si muovevano in un ambiente intriso di silenzio, sottomissione e paura. Il medico, forte della sua posizione gerarchica, avrebbe esercitato un potere che andava ben oltre l’autorità clinica: un dominio psicologico che ha generato un clima di omertà e una paralisi collettiva, in cui parlare significava rischiare rappresaglie professionali o isolamento. Un contesto tossico, che ha permesso all’uomo di agire indisturbato, alimentando la reticenza di molte potenziali testimoni e vittime.
Stalking in corsia
L’Azienda sanitaria, travolta da una bufera mediatica e sociale, non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale, suscitando ulteriore sdegno e interrogativi. In un momento in cui il personale sanitario chiede tutele, formazione e spazi sicuri, il silenzio delle istituzioni appare come un’ulteriore forma di complicità passiva. La vicenda chiama in causa le responsabilità gestionali, ma anche quelle culturali, legate alla normalizzazione dell’abuso nei contesti ad alta verticalità come quello ospedaliero.
Mentre la Procura prosegue le indagini, si cerca ora di far luce su eventuali coperture interne, omissioni, segnali ignorati. Il caso di Piacenza non è solo una vicenda giudiziaria: è una ferita aperta in una comunità professionale che, troppo spesso, ha protetto i carnefici e messo a tacere le vittime.
Per le donne coinvolte, la speranza è che la giustizia sia rapida e incisiva, ma anche che il loro gesto di denuncia possa servire a infrangere quel muro di silenzio che ancora oggi protegge il potere abusivo. Per la sanità pubblica, è tempo di una riflessione profonda: non può esserci cura dove c’è paura. E non può esserci rispetto dove il potere diventa violenza.
Un caso giudiziario scabroso e allarmante ha travolto l’ospedale civile di Piacenza, dove un medico primario è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale aggravata e atti persecutori. L’uomo, la cui identità è al momento coperta da riserbo investigativo, è stato posto agli arresti domiciliari, mentre gli inquirenti hanno proceduto con le perquisizioni del suo studio e della sua abitazione, alla ricerca di ulteriori elementi di prova.
Tutto è partito dalla denuncia coraggiosa di una delle vittime, una dottoressa del reparto, che ha raccontato di essere stata costretta a subire atti sessuali non consenzienti all’interno di una stanza chiusa, luogo diventato simbolo di una violenza esercitata non solo sul corpo, ma anche sullo spazio e sul tempo del lavoro. Da quel racconto è scaturita un’indagine serrata, con l’impiego di intercettazioni ambientali e telefoniche che hanno documentato, nel giro di appena 45 giorni, ben 32 episodi di abusi.
Le vittime – medici e infermiere – si muovevano in un ambiente intriso di silenzio, sottomissione e paura. Il medico, forte della sua posizione gerarchica, avrebbe esercitato un potere che andava ben oltre l’autorità clinica: un dominio psicologico che ha generato un clima di omertà e una paralisi collettiva, in cui parlare significava rischiare rappresaglie professionali o isolamento. Un contesto tossico, che ha permesso all’uomo di agire indisturbato, alimentando la reticenza di molte potenziali testimoni e vittime.
L’Azienda sanitaria, travolta da una bufera mediatica e sociale, non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale, suscitando ulteriore sdegno e interrogativi. In un momento in cui il personale sanitario chiede tutele, formazione e spazi sicuri, il silenzio delle istituzioni appare come un’ulteriore forma di complicità passiva. La vicenda chiama in causa le responsabilità gestionali, ma anche quelle culturali, legate alla normalizzazione dell’abuso nei contesti ad alta verticalità come quello ospedaliero.
Mentre la Procura prosegue le indagini, si cerca ora di far luce su eventuali coperture interne, omissioni, segnali ignorati. Il caso di Piacenza non è solo una vicenda giudiziaria: è una ferita aperta in una comunità professionale che, troppo spesso, ha protetto i carnefici e messo a tacere le vittime.
Per le donne coinvolte, la speranza è che la giustizia sia rapida e incisiva, ma anche che il loro gesto di denuncia possa servire a infrangere quel muro di silenzio che ancora oggi protegge il potere abusivo. Per la sanità pubblica, è tempo di una riflessione profonda: non può esserci cura dove c’è paura. E non può esserci rispetto dove il potere diventa violenza.
LA VOCE DEL CANAVESE
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