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Cronaca
23 Aprile 2025 - 10:33
Antonio Ferranti, l'usuraio di Caluso condannato in via definitiva
Cinque anni dopo il clamore mediatico dell’operazione “Shylock” – ironico richiamo shakespeariano a uno degli usurai più celebri della letteratura – la giustizia italiana ha messo il sigillo definitivo sulla vicenda giudiziaria di Antonio Ferranti, 56 anni, calusiese, riconosciuto colpevole di usura aggravata. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni e 6 mesi, già ridotta in appello per effetto della prescrizione su uno dei capi d’accusa, chiudendo una delle pagine più oscure di microcriminalità finanziaria nella provincia torinese.
Il processo era iniziato davanti al tribunale di Ivrea, dove Ferranti era stato condannato in primo grado a 5 anni e 2 mesi di reclusione, mentre venivano assolti la moglie Maria Mezzo e il co-imputato Vito Mazzamuto. La linea difensiva, sostenuta dall’avvocata Patrizia Gambino del foro di Asti, aveva puntato tutto sull’attendibilità delle vittime e sull’asserita inesattezza nei calcoli dei tassi applicati, sostenendo che mancassero riscontri oggettivi e che le testimonianze fossero viziate da elementi di incertezza. Ma né i giudici d’appello né i supremi ermellini hanno accolto queste tesi.
Anzi. La Cassazione ha ribadito un principio giuridico fondamentale: non è necessario che gli interessi usurari vengano materialmente riscossi, basta che vengano pattuiti, poiché la norma penale punisce anche la sola promessa di tassi oltre soglia. E i giudici non hanno dubbi: le pattuizioni tra Ferranti e le vittime erano “determinate sulla scorta di dichiarazioni ritenute attendibili”, frutto di un’indagine accurata e coerente.
Ferranti era stato condannato in primo grado a 5 anni e 2 mesi di reclusione
Ma il dato più inquietante emerge dalle motivazioni. Secondo la Suprema Corte, Ferranti avrebbe agito con pervicacia per almeno un decennio, colpendo una pluralità di soggetti in evidente difficoltà economica, alcuni dei quali imprenditori in cerca di liquidità rapida. A fronte del loro bisogno, l’uomo applicava interessi spropositati, lucrando su fragilità e disperazione. Non solo: nel corso delle indagini avrebbe cercato di cancellare le prove, manipolando i propri dispositivi elettronici e contattando direttamente le vittime, invitandole a fornire versioni “di comodo” per proteggerlo.
La Cassazione ha parlato di “condotte particolarmente odiose”, figlie di un disegno criminoso lucido e reiterato, non estemporaneo né occasionale. E l’analisi della situazione patrimoniale dell’imputato – pur disoccupato – ha confermato i sospetti: disponibilità economiche sproporzionate, riconducibili agli introiti illeciti dell’attività usuraria. Immobili e somme di denaro sono stati sottoposti a sequestro, chiudendo simbolicamente il cerchio su un’attività sommersa ma strutturata.
L’operazione “Shylock”, nata da un lavoro investigativo partito dalle testimonianze raccolte nel basso Canavese, era stata uno dei primi segnali d’allarme sulla diffusione carsica dell’usura privata in contesti semi-periferici, lontani dai grandi centri urbani ma non per questo immuni da fenomeni di criminalità economica. Oggi, con la sentenza definitiva, si mette la parola fine a un percorso giudiziario complesso, ma anche un monito per chi continua a esercitare violenza finanziaria sotto la copertura del bisogno.
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