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Ombre su Torino

Una fedina penale lunga quasi come il proprio cognome

La folle storia del conte Cesare Maria Gaschi di Bourget e Villarodin

Una fedina penale lunga quasi come il proprio cognome.

Se il capitolo iniziale di questa storia l’avesse scritto lo stesso giornalista di cui abbiamo letto le parole usate per descrivere Antonio Di Falco e i suoi sodali chissà come avrebbe descritto il primo personaggio che compare in questa vicenda.

Viene anche lui dalle Vallette, abita in via delle Primule 12 e si chiama Vittorio De Maio. Può darsi che, nel 1964, quel quartiere nell’estrema periferia nordovest di Torino non sia ancora abitato da “disadattati, emarginati e sradicati” e che lui non sia ancora un gran criminale, ma, in seguito, il suo nome spunterà nelle pagine di cronaca almeno due volte: nel 1968 quando tenterà di uccidere un rivale in amore con una pistolettata e nel 1972 quando sarà lui a essere colpito da un proiettile in un club di via Cigna ritrovo abituale di malviventi.

Nel 1964 ha 22 anni, fa il bigliettaio per l’ATM e non è certo un gran criminale ma è già noto alla polizia per essere un piantagrane. La conferma del suo status arriva il 18 gennaio di quell’anno.

De Maio è alla guida della sua Giulietta con un amico quando, intorno alle 13, in via Montebello si imbattono in una Giulia ferma vicino al marciapiede con di fianco un ragazzo intento a cambiare una gomma. I due si piantano in mezzo alla carreggiata e iniziano a prenderlo in giro, dicendogli anche che, per 5000 lire, gli avrebbero dato una mano.

La scena va avanti qualche minuto finché alle loro spalle giunge un’altra auto. A bordo c’è un impiegato della FIAT di 44 anni, Ugo Gino, e i figli Luigi e Luciana. Con la strada sbarrata, l’uomo arresta la marcia e, dopo qualche istante d’attesa, dà un colpo di clacson e poi scende dalla macchina.

È un uomo mite, timido, cortese e la sua intenzione è quella di chiedere ai giovani di spostarsi ma quelli non gli danno tempo di parlare. L’amico di Vittorio gli si scaglia addosso e gli dà due pugni al ventre, mentre De Maio colpisce in faccia il figlio, spaccandogli il labbro. Il giovane viene portato in ospedale ed è qui che Ugo Gino si sente male.

È pallido, si porta le mani allo stomaco e sviene su una panca ma non chiede aiuto, anzi, ha fretta di tornare a casa perché la moglie lo sta aspettando per pranzo. Quando alle 14,30, finalmente, viene chiamata la Croce Rossa è troppo tardi: Ugo Gino muore sul pavimento del suo alloggio.

Individuato tramite il numero di targa, De Maio viene rintracciato nel pomeriggio mentre si taglia i capelli. Quando la polizia lo trova non gli riferisce che quella rissa ha provocato il morto e il giovane minimizza: è stata una banale lite stradale, niente di che. Nel farlo svela anche il nome del suo complice, raccontando, per altro, che è stato proprio lui a colpire il signor Gino.

Non è quello di uno sbandato o di un ladruncolo delle Vallette. È un nobile, un conte per la precisione: si chiama Cesare Maria Gaschi di Bourget e Villarodin.

21 anni, Gaschi è il rampollo di una storica casata che, però, in quegli anni, più che rappresentare agio e ricchezza fa tornare alla mente ben altro. Il padre e lo zio, infatti, erano stati i fondatori di una squadraccia che rappresentava il nucleo più intransigente e radicale in seno al fascismo torinese. Gente che, nel corso degli anni, si trovò a passare da essere spina dorsale del movimento fino ad essere considerata una minaccia e, in alcuni casi, a subire arresti e deportazioni al confino. Individui dal cognome altisonante ma da tempo in condizioni economiche non floridissime e scelti, come si può leggere da documenti dell’epoca “per l’esempio e lo spirito di solidarietà”. Se già per i suoi familiari tali valori erano più teorici che altro, nel suo caso parliamo di un delinquente fatto e finito.

Sentito il giorno dopo l’omicidio Gino, il padre lo descrive come scioperato, dalle cattive compagnie, squilibrato a causa di un incidente di qualche tempo prima dal quale non si sarebbe completamente ripreso. Già finito in carcere per alcuni furti, in quel momento è in libertà vigilata e sospettato di essere coinvolto in un sequestro di persona.

Quando si costituisce, il 31 gennaio, viene accusato insieme a De Maio di omicidio preterintenzionale. Ugo Gino è deceduto a causa di un infarto provocato da un forte trauma psichico: per difendersi da quella aggressione, ha speso così tante energie fisiche che gli è scoppiato il cuore.

A indagini in corso, viene incriminato per aver svaligiato una pellicceria per 10 milioni di lire, di aver trafugato 90 pneumatici da un’officina e di aver agito come ricettatore dopo aver comprato da alcuni giovani della stoffa rubata. È nello stesso periodo che vengono arrestati anche i suoi fratelli Guido e Vittorio per una tentata rapina a un ricco possidente a Milano.

Dichiarati colpevoli in primo grado e in appello per l’assassinio di via Montebello, nel secondo grado di giudizio, nel 1965, Gaschi e De Maio sfoderano un vero e proprio dream team di avvocati. A difenderli troviamo, infatti, Alfredo De Marsico (già deputato e ministro di Mussolini, senatore monarchico e docente alla Sapienza) il deputato DC Domenico Larussa e, soprattutto, il futuro Presidente della Repubblica Giovanni Leone.

Il loro lavoro porta a un nuovo processo nel quale, nel 1967, De Maio viene assolto e Gaschi condannato a 6 anni e 10 mesi. Il conte sta in cella per quattro anni e, appena uscito nel 1971, viene sorpreso a rubare in un deposito di medicinali di Alba. Torna nelle cronache nel 1976 dopo una rapina a mano armata in una banca vicino Mantova. Quando lo prendono, un anno dopo, in casa gli trovano 4 pistole, candelotti di dinamite, un fucile a canne mozze e dei passamontagna.

Dichiarato non giudicabile per quel colpo in quanto non in grado di intendere e di volere, il suo nome rimbalza nelle cronache da allora fino a ieri. Nell’87 lo fermano con 300 grammi di eroina e, poi, si specializza come ricettatore e usuraio. Entra ed esce di prigione uno sproposito di volte e le ultime notizie su di lui lo raccontano come compratore d’oro rubato (da far fondere clandestinamente a Valenza) e lo accusano velatamente di aver profanato nel 2013 la tomba dell’ex moglie portando via tutti i gioielli addosso al cadavere.

L’ultimo arresto nel 2021, a 77 anni. Lo trovano con un compare con una pistola, 400 munizioni e un “jammer” per disturbare i gps dei portavalori. In casa vengono reperiti lampeggianti, palette, targhe taroccate, lingotti d’argento, catenine, bracciali, anelli d’oro, diamanti, penne, orologi di valore e un fornelletto elettrico usato per la fusione dei metalli preziosi.

La banalità dei modi di dire suggerisce che i soldi non fanno la felicità e che l’abito non fa il monaco. E, a volte, un nobile dal cognome chilometrico può tramutarsi in un criminale incallito molto peggio dell’ultimo ragazzino spiantato che abita alle Vallette.

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