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Cronaca

Ciriè, professore arrestato per molestie in classe: incastrato dai video degli studenti

Scandalo al liceo Fermi-Galilei: il docente era sotto accusa da settimane, ora è ai domiciliari. Ma chi ha denunciato finisce sotto pressione

Ciriè, professore arrestato

Ciriè, professore arrestato per molestie in classe: incastrato dai video degli studenti

A Ciriè si è spalancato un cratere fatto di sospetti, rabbia e paura all’interno di una scuola superiore che, fino a pochi mesi fa, appariva come un’isola serena.

Il caso delle presunte molestie avvenute tra i banchi dell’Istituto Fermi-Galilei ha travolto studenti, famiglie e insegnanti, mostrando tutta la fragilità di un sistema che, di fronte a comportamenti inaccettabili, ha faticato a reagire con prontezza e chiarezza.

Al centro della vicenda c’è un professore di 50 anni, arrestato e posto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver molestato alcuni studenti durante le lezioni. Non si tratta di accuse generiche, ma di racconti precisi, di testimonianze incrociate e soprattutto di video girati in classe dagli stessi ragazzi. I filmati mostrerebbero il docente in atteggiamenti estremamente inappropriati, con contatti fisici ripetuti e invasivi. Le mani che scivolano sotto le cinture, le carezze sotto le magliette, lo sguardo insistente: è quanto si vede nelle immagini che hanno spinto un genitore, rappresentante di classe, a rompere il silenzio.

Proprio lui, il padre di una studentessa, è oggi al centro di un paradosso che ha il sapore dell’ingiustizia. Dopo aver raccolto il materiale video e le segnalazioni di altri genitori, si è rivolto ai carabinieri per denunciare i fatti. Ma, anziché ricevere protezione e ascolto, si è visto sequestrare tutti i suoi dispositivi elettronici personali: il telefono, il computer, gli strumenti con cui lavora e gestisce la sua famiglia, compresi quelli indispensabili per monitorare la salute di un figlio con disabilità. Non è una persona benestante, ma un padre qualunque che si è trovato, di punto in bianco, senza mezzi per comunicare, lavorare e assistere il figlio malato. La sua avvocata ha denunciato l’assurdità del provvedimento: i video erano già stati consegnati alla procura, le prove già messe a disposizione, non c’era bisogno di ulteriori acquisizioni forensi, né tantomeno di bloccare la sua vita familiare e professionale. Eppure, ancora oggi, quei dispositivi non gli sono stati restituiti.

Questo caso non è solo una questione giudiziaria. È una vicenda che racconta molto del nostro rapporto con la denuncia, con la verità, con il coraggio civile. Per anni, secondo quanto emerso, nella scuola si sarebbe saputo. Le voci circolavano, i comportamenti erano noti a molti. Ma nulla è accaduto finché qualcuno non ha avuto il coraggio di alzare la voce. Quel qualcuno, invece di essere protetto, è stato messo sotto torchio, come se il problema fosse lui. È il rovesciamento del senso civico. Il segnale pericoloso che rischia di passare è che chi parla, chi denuncia, viene punito. E chi tace, invece, si mette al sicuro. È il messaggio peggiore che si possa trasmettere ai ragazzi: che è meglio chiudere gli occhi, che è più conveniente far finta di niente.

L'inchiesta è ancora aperta, coordinata dalla Procura di Ivrea, e potrebbe allargarsi nei prossimi giorni. Altri genitori si stanno facendo avanti, altri ragazzi stanno trovando la forza di raccontare. Ma intanto, il clima nella scuola è pesante. C’è chi evita di parlarne, chi guarda con sospetto chi ha denunciato, chi preferisce aspettare e vedere. Eppure, una scuola dovrebbe essere prima di tutto un luogo sicuro. Un ambiente in cui la fiducia tra adulti e studenti sia protetta e valorizzata. Non è normale che si arrivi a documentare con un cellulare quello che succede durante l’ora di lezione. Non è normale che i ragazzi debbano diventare investigatori per farsi ascoltare.

Il preside, nel suo comunicato ufficiale, ha espresso dispiacere per quanto accaduto, dichiarando che l’istituto farà tutto il possibile per ripristinare un clima sereno. Ma le parole non bastano. Servono gesti, scelte, prese di posizione chiare. La sostituzione del docente con una nuova insegnante è solo il primo passo. Ora serve una riflessione collettiva. Serve chiedersi come sia stato possibile che quei comportamenti siano andati avanti così a lungo senza conseguenze. E serve, soprattutto, proteggere chi ha parlato, perché senza di lui – senza quel padre e senza quei ragazzi – oggi nessuno saprebbe nulla.

A fare più rumore di tutti è stata l’intervista-denuncia di un giornalista che, armato di microfono e video, ha messo il professore con le spalle al muro. Non a caso, anche a lui è stato sequestrato il cellulare e il materiale raccolto. Ma è proprio da lì che la vicenda è diventata pubblica. È grazie a chi ha avuto il coraggio di filmare e raccontare che oggi possiamo parlare apertamente di ciò che è accaduto. E se anche questo viene visto come un problema, allora dobbiamo domandarci che tipo di società vogliamo essere. Perché il punto non è solo cosa ha fatto quel professore. Il punto è come abbiamo reagito noi. Il punto è chi ha taciuto, chi ha visto e non ha detto nulla, chi ha preferito non esporsi. E chi ha parlato – quel genitore che oggi si ritrova senza telefono, senza computer, ma con la coscienza a posto – rappresenta, nel caos di questa vicenda, la parte migliore di noi.

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