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Pizzeria chiusa "per mafia" a due passi dal Municipio

Il provvedimento del Prefetto di Torino è stato notificato in questi giorni

Chivasso

La pizzeria di Chivasso è stata chiusa con provvedimenti del Prefetto di Torino

Pizzeria chiusa "per mafia" a due passi dal Municipio. 

Succede a Chivasso, nel pieno nord dell’Italia produttiva e succede nel centro storico di una città di trenta mila abitanti a venti chilometri da Torino, nell’isola pedonale luogo di shopping e di movida nei fine settimana.

La Prefettura di Torino ha emesso nei giorni scorsi un’interdittiva antimafia nei confronti del ristorante pizzeria "Vecchio Cavour", riconducibile alla famiglia Ilacqua. 

"Ci scusiamo con la rispettabile clientela per il disagio creato, stiamo lavorando per risolvere i problemi": è il messaggio lasciato in un biglietto davanti alle saracinesche abbassate del locale.

La pizzeria in via Torino a Chivasso, a due passi dal Municipio

Il provvedimento amministrativo è stato trasmesso al Comune che l’ha reso effettivo come risposta ad una vecchia SCIA presentata dai titolari del locale, a cui ora resta la possibilità di proporre ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per riaprire il locale e per dimostrare che il provvedimento del Prefetto non è corretto.

Ma che cos’è un’interdittiva antimafia? 

Le interdittive antimafia sono previste e disciplinate dal D.lgs. n. 159/2011, noto come Codice Antimafia, e hanno lo scopo di prevenire le infiltrazioni mafiose nel mercato mediante l’interdizione delle imprese, che ne sono destinatarie, a contrarre con la Pubblica Amministrazione o a ricevere erogazioni pubbliche, al fine di assicurare la tutela della concorrenza.

Che la mafia, o la ‘ndrangheta nello specifico, potesse essere radicata a Chivasso non è certo un provvedimento di natura amministrativa della Prefettura a farlo sospettare.

Le operazioni Minotauro, Colpo di Coda, Platinum Dia con le relative condanne in tribunale - le ultime, quelle di Platinum, recentissime riguardano in particolare due imprenditori, i fratelli Vazzana, titolari di hotel e attività a Chivasso e a Volpiano - sono colpi assestati al cuore della malavita organizzata negli ultimi dodici anni. 

Ma già prima era emerso che Chivasso fosse una realtà in odor di mafia.

Rocco Vincenzo Ursini

A ricordarci che a Chivasso si sono vissuti “incredibili” e che la malavita organizzata forse continua ad essere tutta intorno a noi c'è un uomo, Vincenzo Rocco Ursini, scomparso nel 2009 e mai ritrovato. Aveva 28 anni.

La sua foto ancora campeggia sul sito della celebre trasmissione TV "Chi l'ha visto?" con tanto di messaggio della sorella: "Aiutateci a trovarlo"

"Vincenzo Ursini, 28 anni, si è allontanato la mattina dell'8 aprile 2009 da Chivasso. Alle 13:30 il suo cellulare risultava già spento e da quel momento nessuno lo ha più visto. E' scomparso a bordo di un'auto modello ALFA 166...".

Residente nel quartiere Blatta, nipote nipote prediletto del boss Mario Ursini, la sua auto viene ritrovata in divieto di sosta a Mappano.

Nella ricostruzione dei carabinieri, quel giorno Rocco Vincenzo  Ursini avrebbe dovuto accompagnare al lavoro la fidanzata, figlia di Rocco Schirripa, di Torrazza Piemonte, attualmente in galera.

Si saprà solo nel 2010, da una lettura delle carte dell’inchiesta “Crimine” della procuratrice Ilda Boccassini di Milano che lo avevano (forse) “fatto fuori” dei sicari, in cerca di una posizione in Calabria  e nel nord Italia.

Una guerra di ‘ndrangheta, insomma, dai contorni mai chiariti…. Nella stessa inchiesta l’intercettazione di una conversazione avvenuta il 14 agosto del 2009 in un bar di Chivasso, crocevia di incontri tra malavitosi, “Il Timone”.

A parlare era Giuseppe Commisso, il “mastro” della ‘ndrangheta: “Questo Mico Oppedisano, mi raccontava …(inc.)… Rocco Ursino, io non sapevo neanche di chi mi parlava… quel povero disgr… quello che è morto…”.

Giuseppe Commisso

Secondo il racconto di Commisso, il giovane avrebbe avuto un debito di 20 mila euro, che sarebbe stato saldato col sangue. Una storia che non si sarebbe svolta nella "selvaggia" provincia di Reggio Calabria, ma nella civile provincia Torino, dove Oppedisano, sempre secondo il racconto di Commisso avrebbe “mandato a Rocco questo qua, che gli doveva dare ventimila euro… a dargli 10… poi hanno litigato, hanno girato voltato […] e all’ultimo lo hanno ucciso”.

Rocco Vincenzo Ursini è morto pochi mesi prima di sposare una delle figlie di Rocco Schirripa, professione panettiere, residente a Torrazza Piemonte e conosciuto dalle autorità giudiziarie fin dagli anni ’70, denunciato più volte per diversi reati, tra cui il gioco d’azzardo, un tentato omicidio, un furto e una rissa.

Nel 2011 Rocco Schirripa viene arrestato nell’ambito dell’operazione Minotauro, in quanto ritenuto affiliato alla locale di Moncalieri. Patteggia 20 mesi e esce.  

Torna in galera nel dicembre del 2015. I carabinieri lo arrestano a Torino in piazza Campanella, nella panetteria di Francesco Ursini sposato con la figlia più giovane.

Nell’ordine della Procura di Milano si dice parla di lui come uno degli uomini che il 26 giugno del 1983 ammazzarono a colpi di pistola l’allora procuratore capo di Torino Bruno Caccia, l’unico magistrato eliminato dalle cosche nel Nord Italia.

Rocco Schirripa

Per quell’agguato c’è una condanna: Domenico Belfiore, anche lui originario di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), considerato il mandante, sta scontando l’ergastolo dal 1989, ai domiciliare, a Settimo Torinese, per una grave malattia.

Un passo indietro, correva il 2000

Correva il 20 settembre del 2000. La Voce del Canavese titolava in prima pagina “Chivasso Capitale della Mafia”. All’interno i primi resoconti stenografici della commissione parlamentare bicamerale (Camera e Senato insieme) sulle infilrazioni mafiose nel Nord Italia. Nell’elenco dei Comuni colpiti dal fenomeno c’era anche - toh! guarda - Chivasso con l’indicazione di due famiglie calabresi: i Belfiore e gli “Ursini” o “Ursino”. 

Due famiglie non a caso, considerando che sono loro, nel 1983 a ordinare ed eseguire l’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. 

Tra gli indiziati Mario Ursini (condannato a 26 anni di carcere e liberato dopo 10) e Domenico Belfiore.

Nel 2002 la “notizia” che l'aria stava cambiando, che qualcosa stava cominciando a muoversi con una lunga serie di immobili confiscati, di cui peraltro fino a quel momento nessuno aveva mai saputo e scritto nulla, a Torrazza Piemonte, Volpiano, San Sebastiano e Chivasso. 

Lo scrivevamo a caratteri cubitali. Lo dicevamo a sindaci, maggioranze e opposizioni. Lo urlavamo con tutto il fiato che avevamo nei polmoni. Niente! Neanche uno starnuto. Segue un dibattito, “dentro la notizia”, organizzato dal nostro giornale al Cinema Moderno, ospite d’eccezione il Procuratore Capo di Torino Giancarlo Caselli. In sottofondo, Dio è morto, parole e musica di Francesco Guccini. E non era finita qui.

Giancarlo Caselli

Che qualcosa stesse per succedere fu evidente anche poco prima delle elezioni amministrative del 2011 (a Chivasso vincerà Gianni De Mori candidato a sindaco del centrosinistra) con alcune perquisizioni dei carabinieri della Compagnia di Chivasso, comandati dal Capitano Dario Ferrara, a casa dei Trunfio e nel bar Timone, dove spunta una pistola con matricola abrasa nascosta nel controsoffitto... 

Poi di nuovo il silenzio per qualche settimana e, infine, l’affondo con l’inchiesta Minotauro della Procura di Torino.  E chi c’era nell’elenco? 

Guarda caso anche i due Ursini. Uno, Vincenzo Rocco, scomparso e mai più ritrovato nell’aprile del 2009. Ma anche Mario, classe 1950, lo stesso Mario (“‘u tiradritto”) indicato come mandante dell’omicidio del Procuratore Caccia, tornato in libertà, dopo 10 anni passati nelle patrie galere, ma ancora fino al 2011 considerato capo indiscusso della ‘ndrina di Gioiosa.

Don Mario

E allora parliamo di Don Mario Ursini. Per incontrarlo bastava andare al bar Tom di Gregorio Fiarè, in Largo Orbassano a Torino. Lì, gli porgevano omaggio gli «uomini d'onore» dei clan calabresi, baciandogli l'anello o portandogli in dono cassette di pomodori.

Negli anni settanta e ottanta, alleato al clan dei catanesi, i padroni di Torino, era considerato una figura di secondo piano. Cambia tutto con le rivelazioni di Salvatore Parisi e la caduta della Mafia siciliana. La 'Ndrangheta si piglia tutto e a lui toccano Settimo Torinese, Mappano e Caselle. I Belfiore di Sasà si prendonoMoncalieri. Agli Iaria tocca il Canavese. Alle famiglie Franzè e Pronesti Orbassano. Al clan Marmando-Agresta Volpiano e Leini. Chivasso ai fratelli Ilacqua arrivati da Seminara con la protezione di Rocco Gioffrè.  

Scarcerato nell'agosto 2006 dopo che la condanna a 27 anni per l'omicidio del Procuratore Caccia era stata ridimensionata a poco più di 10 anni da cumuli e indulti Mario Ursini decide di tornare in Calabria nella Locride. «Qui non mi fanno vivere» dice a tutti, saluta e se ne va.

Agli inquirenti don Mario, ha sempre negato di essere un boss, fiero di mostrare una carta d'identità dove alla voce "professione" aveva fatto scrivere "pastore".  In tasca la polizia al momento di uno dei tanti arresti gli aveva trovato la tessera del Pci.

A Torino rimane il nipote prediletto Renato Macrì (detto "Renatino") a cui Vincenzo Rocco Ursini era stato affidato e a cui la morte non verrà mai perdonata. 

Il nome di Macrì era già venuto alla ribalta nel marzo 1994, quando in un capannone di Borgaro Torinese, i carabinieri trovano cinque tonnellate e mezzo di cocaina pura, ai tempi un sequestro record in Europa. È l’inizio dell’Operazione Cartagine, che metterà in luce un grande traffico di droga tra Colombia e Italia. Il processo che ne segue si conclude in appello nel luglio del 2000, con quattro ergastoli, una cinquantina di condanne e sequestri di beni per un valore di tre miliardi, tra cui case, anche abusive, terreni e quote societarie che facevano capo agli imputati. 

In ogni caso con la morte di Vincenzo Rocco Ursini finisce lo strapotere degli Ursini in provincia di Torino in tandem con i Belfiore. Le famiglie di Gioiosa Jonica si uniscono a quelle di Platì e della famiglia Marando a capo della quale c’è Pasquale Marando, uno dei narcoboss più potenti in assoluto nel mondo.

La base dei Marando è a Volpiano, da dove in poco tempo e grazie al reticolo familiare che annovera cognomi di grande peso (Barbaro, Papalia Sergi, Agresta, Trimboli).

I Marando sono bravi nel commercio della cocaina che comprano e rivendono in Europa e in America. In breve tempo costruiscono un portafoglio di amici che vanno dai narcos dei cartelli di Calì e Medellin ai pakistani Hafeez passando dalle famiglie turche Kocakaya.

Nicola Gratteri procuratore di Catanzaro

Sarà il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, a partire dal 2002 a mettere le mani sull’imprendibile Marando. Nell’indagine Igres, il magistrato reggino porterà allo scoperto un gigantesco traffico di cocaina gestito da Volpiano, da una villa bunker in frazione Tedeschi che è poi la casa di “Pasqualino il re”. 

A febbraio del 2002 il telefono di Marando non squilla più, non aggancia nessuna cella, resta spento. Per sempre. Lo hanno ucciso e forse si sa anche chi è stato (i cognati Trimboli). Cosi hanno riferito negli anni più pentiti raccontando una storia di dissidi  ma non c’è alcuna verità giudiziaria sul caso, tantomeno chiamate in correità per le persone tirate in ballo dai collaboratori di giustizia.

Senza Pasqualino Marando e Mario Ursini mancano  i decisionisti, i leader.

Ci penseranno i fratelli Adolfo e Cosimo Crea a scalare la rigida gerarchia ‘ndranghetista. Scappati da Monasterace per sfuggire a una faida con le famiglie Gullace-Novella, erano riparati a Torino. Sono giovani e spietati. “Comandano loro. Hanno Torino in mano”. E’ il 2004 quando la Squadra Mobile intercetta un gregario di Adolfo che chiama la fidanzata.

Arresta i Crea e pure Giuseppe Belfiore. A loro contestano l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma al processo i giudici derubricheranno tutto in associazione semplice. I Crea tornano fuori e ricominciano a comandare.

Rocco Varacalli

Nel 2006, una notte di novembre, nel braccio C del carcere delle Vallette, Rocco Varacalli, trafficante di cocaina affiliato al locale di Natile di Careri a Torino, “ingoia – per sua stessa ammissione – una sigaretta dietro l’altra”, poi chiede di poter parlare con il sostituto procuratore Roberto Sparagna, magistrato della Dda che lo ha arrestato pochi mesi prima.

Si è pentito. Riempie 2800 pagine di verbali. Fa quattrocento nomi, consente di risolvere tre omicidi. E’ in quegli anni che inizia l’ultima grande inchiesta sulla ‘ndrangheta in Piemonte.

La chiamano Minotauro perché è in un labirinto di “locali” e riti e codici che sfiniscono i carabinieri quando iniziano a cercare riscontri al libro mastro di Varacalli.

L’8 giugno 2011 scattano le manette: 156 arresti, 120 milioni di euro di beni sequestrati.

Seguono altre operazioni: Colpo di Coda (locale di Chivasso), Alba Chiara (Basso Piemonte), Helving (Novara). Due comuni vengono sciolti per mafia: Rivarolo Canavese e Leinì.

I fratelli Crea prendono 10 anni a testa circa.

Varacalli aveva fatto 450 nomi consentendo di individuare 9 locali. Ognuna di queste strutture conta su almeno 49 soldati. Il conto è presto fatto: fuori c’era e c'è tantissima gente che vive di ‘ndrangheta.

“Cittadini, non siate omertosi: denunciate”

Precise, chirurgiche. Taglienti come rasoi le parole rivolte ai chivassesi dal procuratore antimafia Nicola Gratteri, ospite di un incontro al teatrino civico. Era il maggio scorso. Gratteri era in città per presentare il suo ultimo libro "Fuori dai confini. La 'ndrangheta nel mondo”.

Un libro di cui alcune pagine sono dedicate proprio al Piemonte.

Nicola Gratteri ospite a Palazzo Santa Chiara

"L'errore - ha spiegato il magistrato - è stato quello di crede che la 'Ndrangheta sia un virus e che queste terre fossero immuni. Le infiltrazioni sono state spiegate con il confino proprio qui di alcuni dei capi. Ma è solo una favoletta, una narrazione che non aiuta a capire".

"Abbiamo creduto nella favola del "contagio" quando invece dovevamo parlare di corresponsabilità. Perché se queste organizzazioni sono attecchite anche qui è perché hanno trovato imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo e politici in cerca di sostegno elettorale".

Gratteri lo ha detto a chiare lettere: "E' un problema che riguarda tutta la classe politica e la società. Occorrono riforme serie. Basta volerle e avere le competenze. In una riga: abolire la riforma Cartabia.  Servono investimenti nella scuola e nella ricerca".

E sul ruolo della società civile in questa battaglia, il procuratore Gratteri si è rivolto ai chivassesi: "Non comprate da chi è in odore di mafia. Non andate in quelle pizzerie, in quei bar, in quei ristoranti. E se vedete il mafiosetto di turno al bar, ignoratelo, evitate di offrirgli il caffè. Perché se la mafia riesce a comprare a Chivasso, saltano tutte le regole di mercato. E' una concorrenza sleale. Arrivano con soldi, tanti soldi, provenienti dalla droga e dai traffici illeciti. Arrivano e comprano tutto".

Le forze dell'ordine e il sindaco Claudio Castello al teatrino civico per l'intervento del magistrato

E poi quell'appello fatto proprio in questa città che il commissariamento per infiltrazioni mafiose l'ha sfiorato con l'inchiesta Minotauro. Dove l'attenzione sembra sempre scivolare. Dove l'antimafia ha indagato più volte e dove continua a sentire politici e imprenditori.

Il magistrato ha sottolineato l'importanza della corruzione nelle dinamiche mafiose: "Molte indagini per mafia nascono proprio da fenomeni corruttivi. Oggi le mafie non uccidono più. E questo perché comprano. E siamo dinnanzi ad un forte abbassamento della morale e dell'etica".

Gratteri, come se si trovasse in un qualsiasi paese della locride o del corleonese, ai chivassesi ha detto: "Prendete posizione, non giratevi dall'altra parte. Non siate omertosi. L'omertà c'è se non c'è fiducia nei rappresentanti delle istituzioni. Rivolgetevi a loro anche solo in via confidenziale. E' previsto. Fidatevi e parlate".

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