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Spettacolo

Belen Rodriguez a Belve: “Ho picchiato i miei fidanzati”. Ma se l’avesse detto un uomo?

Le parole della showgirl accendono la polemica: aggressività spacciata per sincerità, e un doppio standard che racconta il lato distorto del patriarcato moderno

Belen Rodriguez a Belve

Belen Rodriguez a Belve: “Ho picchiato i miei fidanzati”. Ma se l’avesse detto un uomo?

È bastato un passaggio, una frase detta con la leggerezza di chi confessa una marachella, per scatenare un cortocircuito mediatico. Durante la sua intervista a “Belve”, nella prima puntata della nuova stagione su Rai 2, Belen Rodriguez ha ammesso candidamente di essere “aggressiva e manesca”. Non solo: ha aggiunto che in passato “ha picchiato tutti i suoi fidanzati”, giustificando il gesto con una battuta che ha fatto gelare lo studio. «Quando non capiscono, passo alle mani. In Argentina si fa così. La lotta, come il duello».

Una frase detta con disinvoltura, forse per spettacolarizzare, forse per esorcizzare, ma che merita più di una risata complice. Perché, se pronunciate da un uomo, quelle stesse parole avrebbero scatenato un processo mediatico senza appello, con titoli, condanne morali e indignazione a reti unificate. E invece, pronunciate da una donna, sono passate tra l’ironia e il folclore.

Nel racconto televisivo, Belen si è mostrata come sempre: diretta, affascinante, egocentrica, autocelebrativa. Si è definita “una cavalla pazza”, “indomabile”, con “una luce speciale”, unica e irripetibile. Ha parlato del suo talento, della sua determinazione, del successo conquistato “senza raccomandazioni”, della generosità che considera il suo pregio principale. Ma poi, con un sorriso, ha aggiunto quella frase che pesa come una pietra: “Io ai miei fidanzati li ho menati tutti. Quando non capiscono, passo alle mani”.

Ha persino ricordato che Stefano De Martino “è quello che ne ha prese di più”, sottolineando però che “aveva le sue ragioni”. Nessun imbarazzo, nessuna riflessione sul significato di ciò che stava dicendo. Anzi, la certezza che il pubblico avrebbe reagito con indulgenza, come davanti a un aneddoto piccante. E così è stato.

È qui che si misura l’ipocrisia di un certo femminismo di superficie, quello che si indigna solo in una direzione. Perché se un uomo, in un salotto televisivo, avesse detto di aver “preso a schiaffi le sue fidanzate”, sarebbe stato massacrato mediaticamente, etichettato per sempre come violento, misogino, inaccettabile. Ma quando a dirlo è una donna, il tono cambia: “irruente”, “passionale”, “sanguigna”.

È la rappresentazione plastica di un patriarcato rovesciato, in cui la forza maschile è condannata e quella femminile, se esercitata con leggerezza, viene normalizzata. Un doppio standard pericoloso, che svuota la parola violenza del suo significato reale, trasformandola in un accessorio di personalità.

La confessione di Belen non è solo una gaffe. È un indicatore culturale. Rivela quanto il dibattito sull’aggressività e sui ruoli di genere sia ancora profondamente distorto. In un Paese in cui ogni settimana si piangono donne vittime di femminicidio, sentire una figura popolare parlare di “passare alle mani” come se fosse un atto di carattere fa male. Perché la violenza, fisica o psicologica, non ha genere né attenuanti.

Non importa che arrivi da un uomo o da una donna, che sia espressa in una relazione sentimentale o in una lite domestica. Resta un abuso. E il fatto che una persona di grande visibilità la racconti senza consapevolezza amplifica il danno. Perché dietro l’ironia televisiva c’è il rischio di legittimare l’aggressività femminile come sfogo naturale, come tratto del temperamento latino, come prova d’amore o di personalità.

Durante la lunga intervista, Belen ha parlato anche di sé in toni più intimi. Ha ricordato la sua infanzia “felicissima” in Argentina, ha raccontato la fatica di arrivare in Italia e di costruirsi da sola, ha rivendicato la propria determinazione e il proprio talento. Ha ammesso le fragilità, i momenti di depressione, la clinica, gli attacchi di panico. Ha detto di sentirsi spesso giudicata, di essere stata ferita dal famoso sex tape che segnò la sua vita privata. Tutto vero, tutto umano. Ma proprio per questo stupisce di più che una donna che ha conosciuto sulla propria pelle il peso della violenza mediatica e del giudizio, oggi tratti con leggerezza la violenza fisica.

Le sue parole non possono essere archiviate come “spontaneità argentina” o “sincerità televisiva”. Perché il contesto in cui sono state pronunciate — una trasmissione di grande ascolto, seguita da milioni di persone — dà loro un peso pubblico. E se si pretende, giustamente, che ogni uomo potente misuri le parole quando parla di donne, lo stesso principio deve valere al contrario.

Chi combatte il patriarcato sa che l’uguaglianza non si costruisce per sottrazione, non eliminando il senso critico verso le donne ma ampliandolo a tutti. In questo senso, l’episodio di Belen Rodriguez a “Belve” è uno specchio inquietante del nostro tempo: un mondo che si definisce progressista ma che applica due morali, una per lui e una per lei.

Non serve condannare Belen, né chiedere crociate mediatiche. Serve invece una riflessione collettiva. Perché finché dire “ho menato i miei fidanzati” potrà far sorridere, e non indignare, la strada verso una vera cultura del rispetto resterà lunga. E perché la libertà di parola, per essere reale, deve sempre passare attraverso la responsabilità di ciò che si dice.

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