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28 Ottobre 2025 - 23:15
Netanyahu torna a bombardare Gaza
Il primo rumore arriva dal cielo, poi la polvere. A Deir al-Balah e a Gaza City la popolazione guarda in alto mentre gli altoparlanti delle ambulanze fischiano nell’aria. Nelle stesse ore, a Rafah, in fondo alla Striscia, un funzionario militare israeliano — non autorizzato a parlare pubblicamente — racconta di colpi contro pattuglie dell’IDF e di risposta al fuoco “secondo le regole d’ingaggio”. È in questo contesto che, nel primo pomeriggio di martedì 28 ottobre 2025, il primo ministro Benjamin Netanyahu ordina all’esercito di condurre “attacchi immediati e potenti” contro obiettivi nella Striscia di Gaza, accusando Hamas di violare il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti e di non restituire i resti degli ostaggi come previsto dagli accordi. La decisione, annunciata dall’Ufficio del Primo Ministro dopo una riunione di sicurezza, è la scintilla che rischia di bruciare i fragili filamenti della tregua in vigore dal 10 ottobre.
Secondo l’Ufficio del Primo Ministro israeliano, la scelta di Netanyahu arriva in risposta a presunte violazioni da parte di Hamas, tra cui l’apertura del fuoco contro forze israeliane nel sud della Striscia e irregolarità nella restituzione dei resti degli ostaggi. Fonti militari internazionali riferiscono che colpi di arma da fuoco sarebbero partiti nell’area di Rafah e che unità israeliane avrebbero reagito. Un funzionario militare anonimo conferma “attività ostile” e descrive la situazione come “fluida”. Nel frattempo Hamas annuncia il rinvio della consegna di altri resti di ostaggi prevista per la sera, sostenendo che le “violazioni israeliane della tregua” rendono impossibili le operazioni di recupero. Israele, invece, accusa Hamas di aver inscenato la restituzione di parti del corpo di un ostaggio già identificato e sepolto, diffondendo persino un filmato di droni a sostegno dell’accusa. Hamas respinge con forza questa versione, ribadendo che la devastazione nella Striscia rende estremamente difficile localizzare e recuperare i cadaveri.
Il punto più sensibile dell’accordo di cessate il fuoco, accanto alla fornitura di aiuti e alle condizioni di sicurezza, è proprio la restituzione dei corpi degli ostaggi. In base all’intesa mediata da Washington, con il coinvolgimento di Egitto e Qatar, Hamas si è impegnata a restituire i resti dei civili e dei militari israeliani deceduti a Gaza. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) funge da intermediario neutrale, ricordando che la ricerca e la restituzione dei cadaveri sono responsabilità delle parti in conflitto secondo il diritto internazionale umanitario. Nelle scorse settimane, l’ICRC ha facilitato più scambi di resti e persone, sottolineando la necessità che avvengano in modo dignitoso e sicuro. Le stime sul numero dei corpi ancora mancanti variano: fonti israeliane parlano di almeno tredici, ma i conteggi cambiano con l’avanzare delle identificazioni forensi.
L’episodio che ha fatto precipitare la situazione è quello che Israele considera una “messinscena”: Hamas avrebbe consegnato parti del corpo attribuite a un ostaggio già identificato e sepolto in precedenza. Una provocazione che, insieme agli spari contro soldati israeliani nel sud della Striscia, ha spinto Gerusalemme a ordinare nuovi attacchi. Hamas, dal canto suo, nega di aver orchestrato nulla, spiegando che intere aree di Gaza sono oggi irriconoscibili dopo due anni di guerra, tra macerie, tunnel crollati e ordigni inesplosi che rendono pericolosissime le operazioni di recupero. L’organizzazione aggiunge che le restrizioni israeliane sul movimento di escavatori e squadre di soccorso rallentano ulteriormente ogni intervento.
Entrata in vigore il 10 ottobre 2025, la tregua — sponsorizzata dagli Stati Uniti e sostenuta da Egitto e Qatar — aveva inizialmente consentito scambi di resti e rilasci di detenuti palestinesi, con l’ICRC come facilitatore. Ma già a metà mese si erano registrate violazioni da entrambe le parti: Israele accusava Hamas di ritardi, Hamas replicava puntando il dito contro incursioni e blocchi israeliani. Il valico di Rafah, crocevia umanitario e simbolo politico, è rimasto una leva di pressione decisiva: ogni apertura o chiusura è stata legata al rispetto — reale o presunto — degli impegni sulla restituzione dei corpi. Per l’Egitto, Rafah è una questione di sicurezza nazionale; per Israele, un punto nevralgico del controllo dei tunnel e dei flussi; per Hamas, un canale vitale di sopravvivenza politica e militare.
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Le implicazioni politiche a Gerusalemme sono enormi. Gli “attacchi immediati e potenti” arrivano in un momento di forte tensione interna. Da una parte, il governo di Netanyahu è sotto pressione da parte delle famiglie degli ostaggi e dei ministri più radicali della coalizione, che chiedono risposte dure e azioni visibili. Dall’altra, c’è la pressione internazionale, che chiede moderazione per evitare il collasso della tregua. Gli Stati Uniti insistono per la de-escalation, consapevoli che una nuova ondata di violenza metterebbe a rischio mesi di diplomazia. Anche in Europa e nelle agenzie dell’ONU il timore è che un’escalation renda impossibile attuare le fasi successive dell’accordo: il disarmo di Hamas, la creazione di una forza internazionale di sicurezza e, soprattutto, la grande incognita su chi governerà la Striscia in futuro.
In un contesto di macerie, corpi non restituiti e cieli che tornano a tremare, la tregua del 10 ottobre sembra già un ricordo lontano. E il rumore che arriva dal cielo, ancora una volta, è quello che annuncia che la pace, a Gaza, non è mai davvero cominciata.
La formula scelta da Netanyahu lascia volutamente margini: può significare una campagna di fuoco aereo mirata su siti ritenuti operativi (depositi, punti di comando, lanciatori), un aumento degli strike di artiglieria a ridosso di aree di contatto, o operazioni “mordi e fuggi” per sondare la reattività di Hamas. Martedì pomeriggio, fonti sul campo parlavano di esplosioni in settori diversi della Striscia, con riferimenti a Gaza City e Deir al‑Balah, mentre la Protezione Civile a Gaza segnalava le prime conseguenze. Non vi sono, al momento in cui scriviamo, numeri consolidati e verificabili sulle vittime della nuova ondata. (NPR affiliates; Washington Post)
La risposta di Hamas è duplice: politica e narrativa. Politicamente, il rinvio della consegna di altri resti è un messaggio a più destinatari: a Gerusalemme, perché il tempo dei recuperi può diventare leva negoziale; ai mediatori, per chiedere garanzie e corridoi sicuri; all’opinione pubblica palestinese, per mostrare di non subire passivamente condizioni considerate umilianti. Narrativamente, la linea è quella della “impossibilità tecnica”: distruzione diffusa, macerie, tunnel compromessi, ordigni — elementi che, oggettivamente, complicano scavi e identificazioni. La verità, come spesso accade in guerra, è che a un quadro già caotico si sommano scelte politiche e militari che usano il tempo come risorsa o come arma. (Euronews; Al‑Monitor; Reuters 17‑10‑2025)
Il lessico usato oggi da Netanyahu — “attacchi immediati e potenti” — appartiene al vocabolario di una crisi che rischia di ripetersi a cicli, ogni volta agganciandosi a un episodio simbolico: uno sparo di troppo, un corpo consegnato in modo controverso, un valico chiuso. La fragilità della tregua sta nei dettagli: un atto amministrativo come un’autorizzazione agli scavi, un permesso per un bulldozer, un convoglio di aiuti che passa o non passa. In queste ore, la posta in gioco è doppia: evitare un nuovo capitolo di devastazione nella Striscia di Gaza e, insieme, restituire ai morti ciò che spetta loro — il nome, la tomba, la verità.
Se gli attacchi resteranno calibrati e la mediazione internazionale riuscirà a riaprire i canali tecnici per la restituzione dei resti e l’assistenza umanitaria, la tregua, pur ferita, potrà sopravvivere. Se invece prevarrà la logica della rappresaglia e della umiliazione reciproca, allora questa giornata del 28 ottobre 2025 passerà alla cronaca come il punto in cui la fragile tregua ha ceduto — non per un solo ordigno, ma per la somma di sfiducia, dolore e calcolo politico.
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