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28 Ottobre 2025 - 23:04
“Roma 281022”: il post del consigliere FdI che riaccende il fantasma della Marcia su Roma
Sulla lamiera arrugginita di un segnale, una scritta secca: «Roma 281022». Sullo schermo, poche righe: «Il 28 ottobre 1922 il re Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare un nuovo governo, evitando così la guerra civile. (Questa è storia)».
Non è un estratto da un manuale di storia, ma un post social pubblicato da Antonio Demichele, consigliere municipale di Fratelli d’Italia nel V Municipio Palese–Santo Spirito di Bari. Bastano quella foto e quella frase per scoperchiare, in un giorno simbolico, un vaso di memorie ancora incandescenti: c’è chi applaude con emoticon e bandierine, chi ricorda che da lì iniziò una dittatura ventennale, chi — più semplicemente — invita a «raccontarla bene, la storia».
Il post rimbalza tra chat e gruppi locali, suscita critiche, poi scompare: cancellato nel giro di poche ore. Ma la miccia, ormai, è accesa.
A incendiare ulteriormente il clima arriva un commento di Aurelia Sardone, responsabile provinciale del dipartimento “Tutela vittime” di FdI, che approva con un cuore nero, una fiamma e una bandiera tricolore… dell’Irlanda. Un inciampo simbolico che diventa benzina sulla polemica, considerando il peso storico della fiamma nella destra italiana e la sensibilità del tema nell’anniversario della Marcia su Roma.
La ricostruzione proposta da Demichele parte da un fatto vero — l’incarico conferito da Vittorio Emanuele III a Mussolini il 30 ottobre 1922, dopo il rifiuto di firmare lo stato d’assedio il 28 — ma lo piega a una narrazione che molti storici giudicano fuorviante. Perché presentare quella scelta come un gesto per “evitare la guerra civile” significa capovolgere il senso degli eventi.
La cronologia è chiara: il 28 ottobre il governo Facta chiede lo stato d’assedio, il re lo rifiuta; tra 29 e 30 ottobre chiama Mussolini a formare il nuovo governo; il 31 ottobre si tiene il giuramento. Tutto documentato, tutto noto. Ma il nodo resta politico: perché quella scelta, e a vantaggio di chi?

La Marcia su Roma non fu né una passeggiata né un episodio incruento della normalità costituzionale. Fu una mobilitazione armata, costruita dopo mesi di violenze squadriste contro sedi e militanti socialisti e popolari, nel pieno della crisi dello Stato liberale. Il re avrebbe potuto firmare lo stato d’assedio e affidare all’esercito il compito di fermare i fascisti. Scelse invece la via dell’accomodamento: respinse il decreto e aprì la porta del governo a Mussolini.
Gli storici concordano su un punto: la giustificazione del “pericolo di guerra civile” servì allora, come oggi, a legittimare una resa. Una resa simbolica e istituzionale che segnò la fine dello Stato liberale e l’inizio del fascismo al potere.
Che tutto questo avvenga oggi a Palese–Santo Spirito non è casuale. Il V Municipio è da anni un territorio attraversato da tensioni identitarie e rivendicazioni di autonomia dal Comune di Bari. Decoro, sicurezza, servizi: parole chiave che tornano in ogni campagna politica, spesso mescolate a un senso di abbandono e nostalgia. C’è persino chi propone periodicamente la creazione di un “nuovo Comune” da 35 mila abitanti. In questo contesto, il gesto di un consigliere municipale di FdI — partito radicato sul territorio con circoli, firme e campagne per “l’ordine” — pesa più di un semplice post.
La “reazione con cuore nero” di Aurelia Sardone aggiunge poi un elemento simbolico che non passa inosservato. La fiamma tricolore, da sempre parte della tradizione della destra italiana, accompagna il logo del MSI, poi di Alleanza Nazionale e infine di Fratelli d’Italia, che nel 2014 l’ha reintrodotta ufficialmente. È un simbolo che riemerge ciclicamente nel dibattito pubblico, tra chi la considera identità e chi la giudica un’eredità ingombrante. Se poi, per disattenzione, alla fiamma si affianca la bandiera irlandese al posto del tricolore italiano, la gaffe diventa un caso politico.
Sul piano nazionale, Giorgia Meloni ha più volte ribadito che «la destra democratica è incompatibile con qualsiasi nostalgia del fascismo» e ha condannato «tutti i totalitarismi» durante le celebrazioni del 25 aprile. Nel 2024, dopo alcune inchieste giornalistiche sul movimento giovanile di FdI, ha richiamato i dirigenti all’espulsione di chi glorifica apertamente il Ventennio. Ma tra le parole ufficiali e i gesti “dal basso” continua ad aprirsi una crepa. Una crepa che parla un linguaggio diverso, fatto di simboli, allusioni e “cuori neri” digitali.
La questione della fiamma resta irrisolta. Nel simbolo del partito è più che un segno grafico: è memoria, identità e terreno minato. Ogni volta che, da una periferia o da un post su Facebook, riaffiora quel lessico nostalgico, il partito si ritrova a fare i conti con il proprio passato. E con un presente in cui basta un emoji sbagliata per riaccendere — cento anni dopo — la discussione su cosa voglia dire davvero “questa è storia”.
La formula nasce anche da parole attribuite a Vittorio Emanuele III e riportate da studiosi come Renzo De Felice: il sovrano disse di aver “chiamato al governo quella gente” per impedire agli italiani di “scannarsi”. Ma questa scelta non disinnescò la violenza: ne spostò il baricentro dentro lo Stato. L’Aventino, il Tribunale speciale, l’OVRA, le leggi eccezionali: la pace sociale venne imposta dall’alto, non costruita dal basso.
Gli storici la definiscono una mobilitazione eversiva che combinò minaccia armata e blocco politico. Non fu la presa fisica dei palazzi come in altri colpi di Stato: fu il compimento di una strategia in cui la violenza per strada e il negoziato nelle stanze del potere si reggevano a vicenda. Il re rifiutò lo stato d’assedio; Mussolini ottenne l’incarico; la marcia venne “celebrata” dopo che i giochi erano fatti.
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