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16 Dicembre 2025 - 13:57
Se muore il castagno, muore la montagna: lo Slow Food accusa lo Stato e chiede risposte
Il castagno non è folklore, non è nostalgia rurale buona per le cartoline. È economia, paesaggio, presidio umano. E soprattutto è una cartina di tornasole: se scompare lui, significa che la montagna italiana è stata definitivamente abbandonata. È da questa consapevolezza che Slow Food Italia e la Rete Slow Food dei Castanicoltori hanno lanciato, dagli Stati generali della castanicoltura riuniti a Castanea Expo 2025 a Firenze, una richiesta netta allo Stato: serve un Piano strategico nazionale per la castanicoltura, subito.
A dirlo senza giri di parole è Federico Varazi, vicepresidente di Slow Food Italia, che mette insieme ambiente, cultura, economia e politica in un messaggio che pesa come un atto d’accusa: il castagno è stato lasciato solo, e con lui interi territori.
Il castagno, ricordano da Slow Food, non è “solo un albero”. È stato per secoli la spina dorsale dell’economia montana, una fonte primaria di cibo, reddito e autonomia. In molte aree interne dell’Appennino e delle Alpi la castagna era il pane dei poveri, la base alimentare che ha permesso alle comunità di restare, coltivare, abitare. Quando il castagno viene abbandonato, non si perde solo una coltura: si spezza un equilibrio antico tra uomo e territorio.
Oggi quel sistema è in crisi profonda. I castagneti tradizionali soffrono l’abbandono, la frammentazione fondiaria, la mancanza di ricambio generazionale, le malattie come il cinipide galligeno e l’impatto crescente del cambiamento climatico. A questo si aggiunge l’assenza di una vera politica nazionale: interventi sporadici, fondi discontinui, nessuna visione di lungo periodo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: boschi non curati, frane, incendi, perdita di biodiversità e spopolamento.

Federico Varazzi
È qui che Slow Food inserisce il castagno dentro una cornice più ampia. La castanicoltura tradizionale, spiegano, non produce solo frutti: genera servizi ecosistemici fondamentali. Stabilizza i versanti, trattiene l’acqua, riduce il rischio idrogeologico, conserva suoli e biodiversità, mantiene vivo il paesaggio. In altre parole, svolge funzioni pubbliche senza essere riconosciuta come tale. Da qui la richiesta di un cambio di paradigma: riconoscere economicamente e politicamente questi servizi.
Slow Food, movimento internazionale nato in Italia nel 1986, si fonda su un’idea semplice e radicale: il cibo non è una merce qualunque. È cultura, diritto, ambiente, giustizia sociale. Il principio del “buono, pulito e giusto” si traduce in difesa delle produzioni locali, dei saperi contadini, della biodiversità e delle comunità che la custodiscono. Nel caso del castagno, questo approccio diventa politico: senza castanicoltori non c’è montagna, senza montagna non c’è equilibrio territoriale.
Per questo Slow Food chiede al Ministero dell’Agricoltura (Masaf) un Piano strategico che non sia l’ennesimo documento di intenti. Tra le proposte presentate c’è la realizzazione di un censimento nazionale dei castagneti, oggi sorprendentemente assente. Senza dati certi su estensione, stato di salute e gestione dei castagneti italiani, ogni politica è cieca. Quel censimento servirebbe anche per portare istanze solide ai tavoli europei, dove si decidono fondi e indirizzi della Politica agricola comune.
Ma c’è anche un tema culturale, che Varazi rivendica con forza. Il castagno va raccontato di nuovo, sottratto all’immagine marginale e restituito alla sua centralità storica. Perdere il castagno, dice Slow Food, significa perdere un pezzo dell’identità collettiva italiana. E con essa l’occasione di una rinascita delle aree interne, oggi celebrate nei convegni e dimenticate nei bilanci.
Il contesto è quello di una montagna che lo Stato continua a evocare come risorsa, ma che nei fatti tratta come un problema. Si parla di transizione ecologica, di sostenibilità, di difesa del suolo, mentre si lasciano morire sistemi agricoli che da secoli fanno esattamente questo lavoro. Il castagno, in questo senso, è un alleato naturale della transizione: una coltura resiliente, adattata ai territori, capace di produrre valore senza devastare.
L’appello di Slow Food non è isolato. Dietro ci sono centinaia di piccoli produttori, comunità locali, territori che resistono nonostante tutto. Ma senza una strategia nazionale, il rischio è che anche questa resistenza diventi eroica e marginale, destinata a spegnersi.
Il messaggio che arriva da Firenze è chiaro e scomodo: la castanicoltura non è un tema di nicchia, è una questione strutturale. Riguarda la sicurezza del territorio, l’economia delle aree interne, la biodiversità, il clima. Continuare a ignorarla significa scegliere l’abbandono. E quando la montagna viene abbandonata, prima o poi il conto arriva a valle.
Slow Food chiede allo Stato di decidersi: o si investe in una politica seria per il castagno, oppure si accetta consapevolmente la perdita di un pezzo di Paese. Non come metafora, ma come fatto concreto.
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