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Sanità pubblica allo sfascio mentre il privato dilaga: cittadini costretti a pagare

L’analisi Gimbe fotografa un Paese dove chi può paga, chi non può rinuncia e il servizio sanitario nazionale perde terreno anno dopo anno

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Sanità pubblica allo sfascio mentre il privato dilaga: cittadini costretti a pagare

In Italia la sanità pubblica dovrebbe rappresentare una garanzia universale, un diritto intoccabile capace di proteggere tutti, indipendentemente dal reddito e dal luogo in cui si vive. Dovrebbe, appunto. Perché oggi i numeri mostrano un quadro molto diverso: il Servizio sanitario nazionale indietreggia e lascia spazi sempre più ampi al privato, che di fatto sostiene interi comparti come la riabilitazione, mentre cresce la spesa a carico delle famiglie e aumentano in modo preoccupante le persone che rinunciano alle cure. Un arretramento lento, silenzioso, ma ormai evidente.

A dirlo non è un’opinione politica, ma la nuova analisi della Fondazione Gimbe, presentata al 20° Forum Risk Management di Arezzo. Parole nette: «Non serve cercare un piano occulto di smantellamento del servizio sanitario nazionale: basta leggere i numeri», ammonisce il presidente Nino Cartabellotta. E i numeri parlano chiaro. Nel 2024 la spesa sanitaria privata delle famiglie ha raggiunto 41,3 miliardi di euro, pari al 22,3% della spesa complessiva. Nel 2012 era di 32,4 miliardi. Un salto che configura, come spiega Cartabellotta, un sistema ormai di fatto “misto”, senza che nessun governo abbia mai avuto il coraggio di dirlo apertamente.

Mentre il pubblico arretra, i cittadini pagano. E chi non può permetterselo semplicemente si arrende: le rinunce alle cure sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024. Dietro queste cifre ci sono denti non curati, visite rimandate, diagnosi mancate, terapie mai iniziate. Un diritto alla salute che si indebolisce, pezzo dopo pezzo.

La spesa privata si distribuisce in modi che spiegano bene la direzione del sistema: 12,1 miliardi finiscono nelle farmacie; 10,6 miliardi nelle tasche dei professionisti sanitari (odontoiatri, medici, psicologi). Poi ci sono 7,6 miliardi verso strutture private accreditate, 7,2 miliardi verso il privato puro – cliniche, poliambulatori e centri diagnostici non convenzionati – e 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per intramoenia e servizi affini.

Ed è proprio il privato non convenzionato il settore cresciuto di più: +137% dal 2016 al 2023, passando da 3,05 a 7,23 miliardi. Un dato che racconta un’Italia dove chi cerca risposte rapide – e può pagarle – esce dal perimetro delle tutele pubbliche. Una scelta che non nasce da capricci, ma da liste d’attesa infinite, personale carente e servizi territoriali incapaci di rispondere. Di fatto, una privatizzazione strisciante che si alimenta della debolezza del sistema pubblico.

E mentre il cittadino paga, anche il privato accreditato prospera: gestisce l’85% dell’assistenza residenziale, il 78% della riabilitazione, il 72,8% della semi-residenziale e quasi il 60% della specialistica ambulatoriale. Nel frattempo aumentano i “terzi paganti” – fondi sanitari, assicurazioni, casse mutue – che nel 2024 hanno raggiunto 6,36 miliardi, +2 miliardi rispetto al periodo post-pandemico. Risorse che, per vie traverse, finiscono per sostenere soprattutto operatori privati.

Di fronte a tutto questo, la domanda è inevitabile: dov’è finita la promessa della sanità pubblica per tutti? In un Paese in cui la Costituzione parla chiaro, ci ritroviamo con un sistema che chiede sempre più soldi ai cittadini, mentre le cure diventano un privilegio e non un diritto.

Gimbe propone di invertire la rotta: rilanciare il finanziamento pubblico, ridefinire un paniere realistico di Livelli Essenziali di Assistenza, costruire un secondo pilastro integrativo che non trasformi la salute in un mercato, e ristabilire un rapporto pubblico-privato basato sull’integrazione, non sulla competizione. Tutti obiettivi logici. Ma la domanda vera resta una sola: c’è ancora la volontà politica di salvare ciò che resta della sanità pubblica?

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