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Un femminicidio ogni tre giorni: perché l’Italia continua a fallire la promessa di proteggere le donne

Istat: 106 vittime nel 2024, il 91,4% degli omicidi femminili è violenza di genere

Un femminicidio ogni tre giorni: perché l’Italia continua a fallire la promessa di proteggere le donne

Un femminicidio ogni tre giorni: perché l’Italia continua a fallire la promessa di proteggere le donne (foto d'archivio)

L’Italia attraversa un tempo in cui i numeri, più delle parole, rivelano ciò che continuiamo a non voler vedere. L’Istat, ancora una volta, ha posato una lente implacabile sulla violenza contro le donne, mostrando una realtà che non ha più bisogno di essere interpretata: nel 2024 è stato commesso un femminicidio ogni tre giorni. Una cadenza regolare, quasi meccanica, che certifica il fallimento collettivo di una società incapace di fermare la violenza maschile.

Su 116 donne uccise, 106 sono state vittime di femminicidio: un dato pari al 91,4%, tra i più alti degli ultimi anni, dello stesso ordine di grandezza registrato nel 2020. La percentuale racconta un fatto chiaro: quasi tutte le donne che muoiono per mano di qualcuno vengono uccise perché donne. Non è un incidente, non è fatalità, non è emergenza: è un fenomeno strutturale.

La maggior parte delle vittime — 62 casi — è stata uccisa dal partner o dall’ex partner, senza che vi sia stato il tempo o la possibilità di una fuga. Altre 37 donne sono state uccise da un parente: padri, figli, fratelli, generi, cognati. Il resto, sette casi, riguarda amici, conoscenti o completamente sconosciuti; ma anche qui la classificazione come femminicidio è arrivata per l’accanimento usato contro la vittima: strangolamenti, soffocamenti, coltellate ripetute, percosse, una violenza che supera l’intenzione di uccidere e sfocia nel bisogno di annientare.

Il dato più inquietante riguarda un elemento di cui si parla pochissimo: la fascia d’età più esposta al rischio. Le donne anziane, tra i 75 e gli 85 anni, risultano le più vulnerabili. Una verità che scardina l’idea — radicata e fuorviante — che la violenza riguardi “solo” giovani coppie, famiglie in crisi o relazioni contemporanee. Il femminicidio abita tutte le generazioni, ma colpisce con maggiore forza quelle in cui la donna è più fragile e l’uomo, spesso, più invisibile allo sguardo sociale.

L’incidenza dei femminicidi sul totale delle donne uccise, nell’arco di un anno, è cresciuta dall’82,1% del 2023 al 91,4% del 2024. Un salto che, da solo, basterebbe a spiegare perché le celebrazioni della Giornata del 25 novembre continuino a somigliare più a un rito di resistenza che a un appuntamento commemorativo.

Dietro a questi numeri c'è un paradosso: da anni l’Italia approva norme, protocolli, strumenti di tutela; eppure la violenza non diminuisce, anzi spesso cambia forma, anticipa le misure, le aggira. Il legislatore rincorre un fenomeno che corre più veloce di lui. E mentre si discute di leggi, centinaia di donne vivono sotto minaccia senza che nessuno le veda davvero.

La consapevolezza che cresce nei dati è che la violenza di genere non sia un’emergenza, ma una cultura. Una cultura fatta di ruoli rigidi, aspettative sbilanciate, dipendenze affettive che si trasformano in dominio, narrazioni tossiche che legittimano l’idea che una donna possa essere posseduta. È in questo terreno che germogliano gli scenari più tragici.

La parte più dolorosa del rapporto Istat riguarda la modalità delle uccisioni. Nel 54,5% dei femminicidi commessi dal partner o da un familiare, i corpi delle vittime mostrano accanimento: un indice ritenuto dagli esperti come marchio della volontà di annientamento che caratterizza la violenza di genere. Lo stesso accade in tutti i casi in cui gli autori non appartengono alla cerchia familiare, ma la brutalità rimane invariata: sette episodi, tutti classificati come femminicidio proprio per la ferocia dimostrata.

Nonostante questo scenario, la risposta istituzionale continua a oscillare tra iniziative importanti e ritardi incomprensibili. L’Italia ha strumenti, protocolli, strutture; ma ciò che manca è la capacità di farli funzionare in modo uniforme, continuo, strutturato. I centri antiviolenza, che ogni giorno raccolgono la disperazione e il coraggio delle vittime, non hanno numeri sufficienti né fondi stabili per affrontare un fenomeno che cresce per dimensione e complessità.

Il dato Istat mette in luce un’altra verità: la maggior parte delle donne uccise non aveva denunciato. Perché la violenza non inizia quando la donna muore; inizia molto prima, in un silenzio che pesa come una catena e che, troppo spesso, viene scambiato per pace domestica.

Il femminicidio, oggi, non è più un tema da relegare nei margini della cronaca nera. È uno specchio sociale che interroga ogni istituzione, ogni famiglia, ogni comunità. Non basta indignarsi, non bastano giornate dedicate, non basta ricordare nomi che non avrebbero mai dovuto diventare martiri. Serve una rivoluzione culturale che non lasci soli né chi denuncia né chi lavora per proteggerle.

L’Istat parla chiaro: 106 donne uccise nel 2024, quasi tutte per mano di un uomo che conoscevano. Ogni tre giorni una vita spezzata, una famiglia distrutta, una comunità ferita. Ogni tre giorni un fallimento annunciato.

Finché questi numeri non scenderanno, finché non ci sarà una vera capacità preventiva, finché i segnali non saranno intercettati e ascoltati, l’Italia continuerà a chiamare emergenza ciò che invece è una radice profonda della propria storia sociale. E l’unico modo per spezzare questa radice è iniziare finalmente a guardarla senza distogliere lo sguardo.

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