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Sciopero a Ikea Collegno, due giornate di protesta per salario, contratti e part-time forzato

Filcams Cgil e Uiltucs denunciano precarietà diffusa e condizioni peggiorate dopo le esternalizzazioni

Sciopero a Ikea Collegno, due giornate di protesta per salario, contratti e part-time forzato

Sciopero a Ikea Collegno, due giornate di protesta per salario, contratti e part-time forzato

Lo sciopero arriva come l’ennesimo segnale di una tensione che, a Collegno, si trascina da mesi e che ora esplode in due giornate di mobilitazione: il 21 e 22 novembre, per l’intero turno di lavoro, le lavoratrici e i lavoratori del punto vendita Ikea incrociano le braccia. A proclamarlo sono Filcams Cgil Torino e Uiltucs Torino, che inseriscono la protesta dentro una cornice nazionale già in fermento e che porterà, il 5 dicembre, allo sciopero di tutti i negozi italiani.

Il motivo principale, spiegano i sindacati, è il mancato pagamento del salario variabile, per il secondo anno consecutivo. Una voce che, nel modello contrattuale Ikea, dovrebbe rappresentare una quota di retribuzione legata a risultati e produttività e che per i dipendenti è parte integrante del reddito. La mancata erogazione, accompagnata all’assenza di un nuovo Contratto integrativo aziendale fermo da sei anni, alimenta una frustrazione crescente. Il quadro si complica con una serie di condizioni considerate ormai strutturali: secondo le rappresentanze sindacali, circa il 70% del personale è intrappolato in un part-time involontario, con orari che cambiano da una settimana all’altra, rendendo complicata la conciliazione con vita familiare e disponibilità economiche prevedibili.

Nei punti vendita torinesi, come in molti altri del Paese, pesa anche la gestione giudicata poco trasparente di ROL, ferie e lavoro festivo, sempre – dicono Cgil e Uiltucs – con un impatto che favorisce l’azienda più che chi lavora in negozio. A questo si aggiunge la chiusura del reparto di assistenza clienti telefonica post-vendita, trasferito a call center esterni. Una decisione che, per i sindacati, ha significato peggiori condizioni operative e un ulteriore allontanamento tra l’azienda e i lavoratori interni.

In questo clima, l’introduzione del cosiddetto “premio bluff”, come definito dalle sigle sindacali, non sembra aver migliorato la situazione. L’incentivo, spiegano, non restituisce dignità né valore reale al lavoro quotidiano nelle corsie, nei magazzini, nelle aree di servizio e nelle casse. La percezione è che il divario tra la narrazione aziendale e l’esperienza di chi presta servizio sia diventato troppo ampio per essere ignorato.

Filcams e Uiltucs chiariscono che la protesta non ha nulla a che vedere con un presunto “weekend lungo”: in Ikea si lavora regolarmente anche il sabato e la domenica, e l’adesione allo sciopero del venerdì non ha finalità legate al calendario ma alla necessità di rendere visibile un disagio considerato non più sostenibile. Collegno, uno dei punti vendita più grandi del Piemonte, diventa così uno dei fronti più attivi della mobilitazione regionale, con una partecipazione che i sindacati definiscono “molto alta”.

La vertenza locale si intreccia con quella nazionale, in un momento in cui molte grandi catene della distribuzione organizzata fanno i conti con richieste crescenti di stabilità, orari più certi, retribuzioni adeguate e una revisione dei modelli di flessibilità. Per Ikea, che negli anni ha costruito la propria immagine su valori di inclusione e attenzione al benessere del personale, la protesta rappresenta un campanello d’allarme che non può essere derubricato a gesto isolato. La distanza tra professioni sempre più fragilizzate e aspettative di tutela continua ad ampliarsi, e la tensione tra narrativa aziendale e realtà quotidiana si fa sentire in ogni reparto.

Le prossime settimane diranno se la mobilitazione riuscirà ad aprire un confronto vero su contratti, orari, salario variabile e condizioni complessive. Quel che è certo è che, nella grande struttura di Collegno, lo sciopero di novembre si inserisce in un malessere più profondo, segnato dalla precarietà e da un modello organizzativo che molti lavoratori considerano ormai insostenibile.

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