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20 Novembre 2025 - 10:12
Una riforma storica: con il nuovo 609-bis “senza consenso è violenza”
La Camera dei deputati ha dato il primo via libera a una delle riforme più significative degli ultimi decenni in materia di tutela delle donne: la riscrittura dell’articolo 609-bis del codice penale, quello che definisce il reato di violenza sessuale. Una riforma attesa, discussa per anni e che ora entra nel vivo con un voto unanime, un evento raro per una materia così delicata. Il nuovo principio cardine è netto: se non c’è consenso, è violenza sessuale.
Il testo nasce dall’accordo politico – anch’esso inedito – tra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein, che hanno scelto di sospendere le ostilità ideologiche per costruire un terreno comune su un tema che riguarda migliaia di donne ogni anno. Schlein parla di «un grande passo avanti per il Paese, una piccola grande rivoluzione culturale», sottolineando come su questa materia «bisogna saper mettere da parte le divergenze politiche» per dare finalmente strumenti adeguati alla giustizia.
Anche Fratelli d’Italia rivendica la portata del cambiamento. La relatrice Carolina Varchi, in Aula, ha ringraziato la presidente del Consiglio per aver seguito «personalmente l’iter del provvedimento», definendo il testo «una rivoluzione culturale necessaria». Il disegno di legge ora approda al Senato, dove l’intenzione politica sarebbe quella di concludere l’iter entro il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Una scelta simbolica, ma che darebbe alla riforma una forte valenza pubblica.

Il cuore della legge è un concetto che sembra semplice, ma che nella pratica giudiziaria cambia tutto: il “consenso libero e attuale”, in linea con la Convenzione di Istanbul. Non saranno più le vittime a dover dimostrare di aver resistito, come purtroppo in molti processi ancora accade. Ora è l’imputato che dovrà provare l’esistenza di un sì esplicito, consapevole e continuativo, valido per tutta la durata dell’atto sessuale.
La vicepresidente della Commissione femminicidio, Cecilia D’Elia, lo definisce un passaggio che «solleva le donne da un onere ingiusto», riportando l’Italia tra i 21 Paesi europei che hanno abbandonato i vecchi schemi basati sulla resistenza fisica. Sulla stessa linea la deputata leghista Simonetta Matone, già magistrata: «Non sarà la vittima a dover provare la sua resistenza, ma sarà l’imputato a dover dimostrare un consenso fermo, esplicito e per tutta la durata dell’atto». Un principio che ribalta decenni di interpretazioni giudiziarie.
Il nuovo testo amplia inoltre la definizione di violenza, introducendo l’abuso della “particolare vulnerabilità” della vittima accanto alle già previste condizioni di inferiorità fisica o psichica. Questo permette di includere situazioni spesso ignorate dai tribunali: condizioni familiari oppressanti, dipendenze economiche, contesti psicologici manipolativi, stati emotivi alterati. Un adeguamento ritenuto fondamentale dalle associazioni che da anni si battono contro la violenza di genere.
E proprio le associazioni accolgono la riforma con toni di sollievo. Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna Aps, ricorda il peso storico di questa svolta: «Abbiamo impiegato 50 anni di lotte per arrivare qui». Un’affermazione che richiama un percorso lungo, fatto di processi dolorosi, campagne pubbliche e pressioni sulla politica.
Il Movimento 5 Stelle vota a favore, pur ricordando – con la deputata Gilda Sportiello – quanto resti ancora da fare sul fronte della prevenzione, a partire dall’educazione sessuale nelle scuole, tema rilanciato anche da Elisabetta Piccolotti della sinistra rossoverde. Forza Italia, per voce di Catia Polidori, rivendica che «la normativa italiana oggi è tra le migliori», sottolineando l’impegno dello Stato nel proteggere le donne.
In questa votazione storica, a prendere la parola in Aula sono state solo donne. Una scelta simbolica, ma significativa, che mostra quanto questo tema continui a essere vissuto come una battaglia di emancipazione collettiva. Maria Elena Boschi ha ricordato la figura di Franca Viola, la prima donna italiana ad aver rifiutato un matrimonio riparatore negli anni Sessanta: «Se non ci fosse stato quel no, oggi non saremmo qui».
Dalla stessa parte anche Elena Bonetti di Azione, che richiama lo «spirito costituente» di una riforma nata da una convergenza ritenuta quasi impossibile, mentre la dem Laura Boldrini, prima firmataria del testo, punta il dito contro le sentenze del passato che assolvevano gli imputati «perché lei doveva sapere cosa aspettarsi» o perché «aveva già avuto rapporti e quindi era in condizione di immaginare gli sviluppi della situazione». Parole che riportano alla memoria alcuni casi giudiziari che hanno fatto discutere e che la nuova norma intende superare definitivamente.
C’è spazio anche per sgomberare il campo dalle polemiche nate sui social, dove una campagna di disinformazione aveva diffuso la voce di supposti “moduli da firmare” prima di un rapporto sessuale. Boldrini lo definisce «una becera fake news», chiarendo che «l’unica cosa che serve è un sì, libero, esplicito e attuale».
In un Paese che continua a contare femminicidi, aggressioni e violenze quotidiane, questa riforma segna un cambio di paradigma. Non solo giuridico, ma culturale. Cambiano le aule di tribunale, cambiano i parametri con cui i giudici dovranno valutare le prove, cambia l’impianto dei processi. Soprattutto, cambia il messaggio che lo Stato invia: il corpo delle donne non è un terreno negoziabile, e il silenzio non può più essere interpretato come un sì.
La parola “consenso” entra finalmente come pilastro nel cuore della norma penale. Per molte, significa più protezione. Per altre, più coraggio per denunciare. Per tutte, un segnale che il Paese si sta muovendo nella direzione giusta, riconoscendo la complessità della violenza di genere e intervenendo là dove per decenni la legge è rimasta indietro.
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