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19 Novembre 2025 - 09:33
Perché migliaia di persone stanno colorando le loro foto di viola: il movimento nato in Sudafrica che denuncia una donna uccisa ogni ora
Il mondo si sta colorando di viola. Succede in poche ore, in pochi giorni: migliaia di persone hanno virato la propria immagine profilo sui social in questa tonalità artificiale e impossibile da ignorare.
Si tratta di follia collettiva?
La risposta arriva dal Sudafrica, da un numero che non può essere ammorbidito: più di cinquemila donne uccise in un solo anno. Una ogni ora. Il viola nasce qui, come codice di riconoscimento e come rifiuto: rifiuto dell’abitudine, della normalizzazione, dell’indifferenza.
È una segnalazione globale. Un linguaggio immediato. In poche ore il colore attraversa piattaforme, Paesi, fusi orari. Ragazze che non si conoscono si aiutano a tingere le foto, condividono il filtro Purple Light, correggono le tonalità delle altre. Alcune cancellano del tutto la propria immagine e la sostituiscono con un quadrato viola.
In entrambi i casi vale la stessa cosa: non conta il volto, conta il segnale.
Il movimento prende forma in Sudafrica non per ragioni etniche o geografiche, ma per un motivo molto più preciso: la violenza contro le donne ha raggiunto una soglia che non si può più assorbire nel silenzio.
Qui la storia ha lasciato crepe profonde; disuguaglianze economiche, insicurezza diffusa, istituzioni lente, protezioni fragili. Ma ridurlo a un “problema africano” sarebbe un errore profondo. La scrittrice ghanese Ama Ata Aidoo lo riassumeva così: «Quando una donna soffre, la comunità intera è già crollata.»
Quel che accade in Sudafrica non è un’eccezione: è una versione più nuda, più esposta, dello stesso meccanismo che altrove opera con maggiore discrezione.
La differenza non sta nella cultura, ma nell’intensità del fallimento.
Molte donne denunciano, chiedono aiuto, lasciano tracce: il rischio di essere ignorate rimane altissimo. La loro scomparsa viene assimilata come una possibilità prevista. Prima ancora della morte c’è un abbandono lento, quotidiano. E da quel vuoto nasce l’immagine viola.

Il 21 novembre Women For Change ha chiamato una protesta nazionale. Quindici minuti di stop alle dodici in punto: uno per ogni donna uccisa ogni giorno. Non slogan, non cortei: immobilità. Una pausa che è più un nodo alla gola che un gesto politico. Chi vuole partecipare deve fare una cosa sola: fermarsi.
Stare in piedi, sedersi, non importa. Interrompere il flusso della giornata per ricordare a se stessi e al mondo che la vita delle donne non è un dettaglio amministrativo. È un atto di presenza prima ancora che di protesta. Perché troppe cose, per le donne, vengono date per scontate: anche il fatto di sopportare. Fermarsi diventa una forma di ribellione.
E mentre il viola avanza, arriva il vero cortocircuito: nel 2025 il Sudafrica ospiterà il G20. Il Paese in cui una donna muore ogni ora diventerà il palco dove i leader del mondo decideranno che cosa è urgente e che cosa no. Qui troviamo il punto centrale: la violenza sulle donne non è mai considerata urgente da nessuno.
Non entra nei bilanci, non entra nelle agende, non entra nelle priorità. Non è un tema di sicurezza, non è un tema economico, non è un tema diplomatico. È come se la vita delle donne fosse un allegato, una nota a margine, un “ci occuperemo anche di questo, prima o poi”. La fotografa sudafricana Zanele Muholi ha scritto: «Se non raccontiamo noi le nostre ferite, diventeranno solo statistiche.»
Ironico, no?
Le potenze che decidono il futuro del pianeta non sono in grado di garantire la sicurezza della metà dei loro cittadini. Non lo è l’Italia, non lo è la Francia, non lo è il Messico, non lo è l’India, non lo sono gli Stati Uniti.
Cambiano i nomi, non cambia il meccanismo: ovunque le donne spariscono in silenzio, vengono ignorate, non credute, abbandonate. Alcune muoiono. Altre restano vive per miracolo o per caparbietà. Tutte imparano, troppo presto, che la loro paura è normale. Che la loro prudenza è necessaria. Che la loro libertà è condizionata.
Ed è qui che il viola cambia significato. Non è più un codice: è un archivio. Ogni immagine colorata è una storia che non abbiamo ascoltato. Una richiesta di aiuto a cui non abbiamo risposto. Un nome che non abbiamo protetto.
Essere donna significa iniziare presto a leggere il mondo in modo diverso. Da bambina impari a misurare la tua presenza: quanto occupi, quanto disturbi, quanto puoi permetterti. Cresci dentro una grammatica non scritta fatta di avvisi, di divieti gentili, di frasi che non hanno bisogno di essere spiegate.
“Non andarci da sola.” “Fammi sapere quando arrivi.” “Torna prima.” “Copriti.” “Non fidarti.”
È un’educazione alla prudenza che non ha mai la forma della protezione, ma della previsione del pericolo. Gli uomini imparano a uscire. Le donne imparano a tornare. E sempre in fretta.
La verità è che la maggior parte delle donne ha smesso da anni di chiedersi “succederà a me?”. La domanda reale è: “sarò creduta?”.
È questa la frattura più dolorosa: non il rischio, ma la solitudine del rischio. Vivere sapendo che, se qualcosa accade, dovrai prima di tutto convincere qualcuno che è accaduto davvero.
Il viola non riporta in vita nessuna, ma impedisce di dimenticarle.
È un colore che dice “non ci siete riusciti”: non siete riusciti a cancellarle, non siete riusciti a farci credere che fosse normale, non siete riusciti a convincerci che non servisse parlare. Siamo le figlie, le sorelle, le amiche, le insegnanti, le infermiere, le colleghe, le madri. Siamo la prima casa di ogni essere umano.
La nostra vita non può continuare a essere un rischio calcolato, una statistica variabile, un margine ammissibile. Questo movimento non chiede compassione: chiede responsabilità. Chiede che il mondo smetta di girarsi dall’altra parte. Chiede che l’urlo visivo che oggi riempie gli schermi diventi un impegno reale.
Il mondo sarà un posto giusto quando nessuna donna dovrà più morire per essere creduta.
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