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15 Novembre 2025 - 15:22
Città della Salute, dieci anni di bugie: il documento sepolto che svela tutto
Per dieci anni la Città della Salute ha raccontato la stessa storia: l’accordo con la dirigenza medica per applicare la legge Balduzzi non era mai entrato davvero in vigore. Una narrazione comoda, ripetuta come un mantra, utile a spiegare perché il famoso 5% delle prestazioni intramoenia non fosse mai stato trattenuto, né contabilizzato, né utilizzato per ridurre le liste d’attesa. Peccato che fosse tutto falso. La prova è sempre stata lì, dimenticata – o fatta dimenticare – in un cassetto: una delibera del 17 febbraio 2015, firmata dall’allora direttore generale Gian Paolo Zanetta, dalla direttrice amministrativa Andreana Bossola, dal direttore sanitario Silvio Falco e dalla responsabile amministrativa dei presidi ospedalieri Rosa Alessandra Brusco. Nero su bianco dichiaravano l’atto «immediatamente eseguibile». E invece, per motivi che ora sarà un tribunale a dover chiarire, quell’atto non è mai stato applicato.

Quella delibera, oggi riemersa come una mina sotto ai piedi degli ex dirigenti, smentisce clamorosamente anni di versioni ufficiali e ribalta l’intero impianto difensivo messo in piedi dall’azienda. Perché se l’accordo del 24 ottobre 2014 fu davvero recepito nel febbraio 2015, allora la mancata trattenuta del 5% non è un semplice svarione amministrativo: è un’omissione durata un decennio intero, con un danno economico che non riguarda solo i bilanci, ma la vita dei cittadini che in questi anni hanno atteso mesi, a volte anni, una visita specialistica.
La storia, tra l’altro, si complica ulteriormente quando entra in scena il parere redatto in appena otto giorni dal consulente Davide Di Russo, chiamato dopo il rifiuto dell’ex commissario Thomas Schael di firmare il bilancio. Secondo quel documento, i 7,3 milioni iscritti nel 2022 erano un errore contabile da cancellare perché mancava un accordo sindacale valido. Una ricostruzione che oggi si sbriciola davanti all’esistenza della delibera del 2015, un atto che l’azienda avrebbe dovuto applicare e che invece sembra essere stato trattato come carta straccia.
E mentre questo documento riemerge come un colpo di scena, la Città della Salute continua a essere travolta da altre indagini. Una riguarda l’uso disinvolto delle carte di credito aziendali, con la posizione della professoressa Franca Fagioli, indagata per peculato. Un’altra riguarda le prestazioni intramoenia effettuate in orario di servizio pubblico, con possibili violazioni dei doveri istituzionali. Il tutto in una cornice già gravemente compromessa dall’inchiesta madre sui bilanci, dove i principali ex vertici – Giovanni La Valle, Gian Paolo Zanetta, Silvio Falco e Angelo Del Favero – sono accusati di falso ideologico in atto pubblico: una contestazione che non riguarda opinioni, ma atti amministrativi ufficiali che, secondo la Procura, venivano sistematicamente modificati per mascherare una situazione finanziaria disastrosa.
A rendere il quadro ancora più desolante c’è la questione dei crediti mai riscossi. Per anni la Città della Salute ha lasciato marcire nei cassetti un credito di 830mila euro nei confronti del Comune di Torino per le rette dell’Istituto di Riposo, un debito vecchio di quattordici anni. E altri 1,2 milioni legati alla convenzione venezuelana per i trapianti pediatrici. Risorse reali, soldi veri, che avrebbero potuto finanziare nuovi reparti, assumere personale, ridurre tempi di attesa infiniti. Ma anche questi sono stati dimenticati, come la delibera del 2015.
Mentre i pm Giulia Rizzo e Mario Bendoni ricostruiscono dieci anni di gestione, emerge una sanità pubblica schiacciata non dalla mancanza di professionalità medica, ma da un sistema amministrativo incapace, opaco e in alcuni casi dolosamente negligente. Il collegio sindacale, che alla fine ha avuto il coraggio di denunciare tutto alla magistratura, ha parlato di un «parziale disordine amministrativo e contabile». Una definizione elegante che nasconde un decennio di omissioni e scelte discutibili, un fallimento gestionale che ha avuto ricadute pesanti sulla pelle dei pazienti.
Nel frattempo l’attuale direttore generale Giovanni La Valle, tramite la sua avvocata, continua a dichiararsi estraneo ai fatti, sostenendo che «non ci sono stati falsi né truffe». Ma resta la domanda fondamentale: com’è stato possibile che nessuno, per dieci anni, abbia visto, segnalato, impedito la mancata applicazione di una norma fondamentale come la legge Balduzzi? Perché nessuno si è accorto che il 5% non veniva mai trattenuto? E come si spiega il silenzio su milioni di euro mai recuperati?
La risposta più amara è che, a pagare, non sono stati i dirigenti che firmavano delibere poi ignorate, né chi nei bilanci spostava cifre come pedine. A pagare sono stati, e continuano a essere, i cittadini. Quelli che si sentono dire che non c’è una data disponibile prima di tre mesi. Quelli che rinunciano a curarsi perché non possono aspettare. Quelli che, mentre i conti venivano manipolati, rimanevano intrappolati in liste d’attesa infinite che quei milioni avrebbero dovuto accorciare.
E ora quel foglio del 2015, riemerso come un’ombra che nessuno può più ignorare, racconta la verità che per anni è stata sepolta: non mancava l’accordo, mancava la volontà di applicarlo. E in questa storia, la grande eccellenza sanitaria piemontese mostra la sua fragilità più profonda. Non la medicina, ma la burocrazia. Non i medici, ma chi avrebbe dovuto amministrare. Non un errore, ma una scelta. Una scelta che ha presentato il conto a un’intera comunità.
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