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Esteri

Sarkozy in Corte d'appello: dai milioni libici al banco degli imputati.

Dal carcere di La Santé alla libertà vigilata, fino alle udienze del 2026: il caso dei presunti fondi libici torna davanti ai giudici e divide il Paese tra chi invoca giustizia uguale per tutti e chi parla di accanimento politico

Sarkozy, processo d’appello fissato: dal 16 marzo al 3 giugno 2026. Il caso che riscrive il rapporto tra politica, giustizia e denaro

Sarkozy, processo d’appello fissato: dal 16 marzo al 3 giugno 2026. Il caso che riscrive il rapporto tra politica, giustizia e denaro

La porta blindata si chiude alle sue spalle come un sipario che cala su una stagione politica lunga vent’anni. È il 21 ottobre 2025 e l’ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, attraversa il cancello della prigione de La Santé con la lentezza di chi sa che ogni passo pesa come un atto giudiziario. Venti giorni più tardi, il 10 novembre, la Francia lo rivede uscire: non libero, ma sorvegliato, sottoposto a una serie di restrizioni che congelano il passaporto e gli vietano perfino di avvicinare il ministro della Giustizia, Gérald Darmanin. Nel mezzo, resta incisa una condanna in primo grado a cinque anni per associazione a delinquere nel dossier sui presunti finanziamenti libici alla campagna del 2007. Ora esiste un calendario preciso: il processo d’appello si terrà dal 16 marzo al 3 giugno 2026 davanti alla Corte d’appello di Parigi. Si tratta di un appuntamento che travalica la vicenda personale dell’ex presidente e interroga il sistema democratico francese su quanto sia ancora solido il confine fra potere, denaro internazionale e giurisdizione penale.

La conferma delle date, diffusa da fonti convergenti come RaiNews, TF1 Info, CNews, RTL e ripresa dalle agenzie internazionali, fissa un percorso lungo, articolato, in cui dovranno comparire anche altri nove imputati, fra cui gli ex ministri Claude Guéant e Brice Hortefeux. Alcune ricostruzioni indicano già l’autunno 2026 come finestra possibile per il deposito della sentenza, con novembre come ipotesi più accreditata. In primo grado, l’accusa aveva chiesto per Sarkozy sette anni e 300.000 euro di multa, oltre a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici: elementi che fanno intuire l’ampiezza della posta in gioco e l’effetto sistemico che potrebbe scaturire da qualunque verdetto.

La sequenza che ha portato alla detenzione è scandita da passaggi netti: il 25 settembre 2025 il Tribunale correzionale di Parigi condanna l’ex presidente a cinque anni per associazione a delinquere legata a una presunta rete di finanziamenti provenienti dalla Libia di Muammar Gheddafi. Il collegio parla di “gravità eccezionale” dei fatti, sottolineando che, pur senza prova definitiva dell’ingresso di contanti nei conti della campagna, l’impianto indiziario mostra una convergenza organizzata per procurare fondi illeciti. L’esecuzione provvisoria della pena scatta subito, e Sarkozy entra a La Santé in regime di isolamento. Il 10 novembre, la Corte d’appello concede la libertà vigilata, imponendo però divieti severi: non lasciare il territorio francese, non contattare figure chiave dell’inchiesta – compreso Darmanin –, non interferire con testimoni e coimputati. Davanti alle telecamere, l’ex presidente commenta con un tono tra sfida e rassegnazione: “La verità trionferà”. Ma la sua uscita dal carcere non cancella l’immagine, storica per la Quinta Repubblica, di un ex capo dello Stato dietro le sbarre.

Il mosaico investigativo che ha portato alla condanna è composto da testimonianze libiche, itinerari finanziari verso società off-shore, quaderni dell’ex ministro del petrolio Shukri Ghanem, rinvenuto morto nel Danubio nel 2012, e un intreccio di intermediari, fra cui spiccano Alexandre Djouhri e Ziad Takieddine. Proprio Takieddine, figura controversa e tornante di questa vicenda, ha cambiato versione più volte: prima parla di valigie piene di milioni trasportate fra il 2006 e il 2007, poi nel 2020 ritrattata improvvisamente in tv, scatenando un filone autonomo per possibili pressioni su testimoni. Nel processo di primo grado, la Corte non ha fondato la condanna su singoli episodi incontrovertibili, ma sull’insieme di contatti, sequenze e flussi che, presi complessivamente, delineano il perimetro dell’associazione a delinquere.

Nel giudizio d’appello torneranno in aula, oltre a Sarkozy, anche Guéant, Hortefeux, Djouhri, il finanziere Wahib (o Wahid) Nacer, e altri imputati che hanno presentato ricorso. In primo grado non sono mancati esiti differenziati: Éric Woerth, Édouard Ullmo e Ahmed Salem Bugshan erano stati assolti, ma il Parquet national financier ha impugnato anche quella parte della sentenza. Il secondo grado potrebbe dunque rimescolare le carte, confermando o ribaltando segmenti significativi del verdetto.

Il contesto giudiziario in cui si inserisce il processo libico è quello di una traiettoria personale segnata da altre due vicende cruciali. L’affaire des écoutes – il caso “Bismuth” – ha portato Sarkozy a una condanna definitiva, confermata dalla Cassazione il 18 dicembre 2024, per corruzione e traffico d’influenze. Nel dossier Bygmalion, relativo alla campagna 2012, la Corte d’appello aveva confermato la responsabilità per finanziamento illegale, rideterminando la pena a un anno, di cui sei mesi sospesi. La Cassazione deve pronunciarsi il 26 novembre 2025. Tutto si intreccia, tutto pesa: reputazione, agibilità politica, e perfino il futuro di eventuali ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

La sentenza del 25 settembre 2025, che segna l’avvio di questa nuova fase, ha chiarito alcuni punti chiave: l’associazione a delinquere può essere riconosciuta anche senza traccia diretta dei fondi se è dimostrata la costruzione coordinata per ottenerli; il ruolo di Sarkozy, allora ministro dell’Interno e poi candidato, è stato centrale nel coltivare un canale privilegiato con Tripoli; le interlocuzioni di Guéant e Hortefeux con figure come Abdullah Senussi, potente capo dell’intelligence libica, hanno contribuito alla ricostruzione dell’impianto accusatorio. La difesa continua a contestare l’assenza di prove materiali, l’inattendibilità di alcuni testimoni e l’idea stessa che un candidato già largamente finanziato avesse bisogno di denaro nero.

La libertà vigilata concessa il 10 novembre 2025 non attenua il significato politico di quelle tre settimane a La Santé. A destra, nel campo dei Républicains, sono subito arrivati messaggi di solidarietà e persino richieste di grazia presidenziale, tecnicamente prematura perché la condanna non è definitiva. A sinistra e nei movimenti ecologisti, invece, ci si è affrettati a parlare di “giustizia uguale per tutti”, sottolineando come il tribunale abbia ricordato che neppure un ex capo dello Stato può sottrarsi alla legge. L’opinione pubblica appare divisa: accanto alle immagini di sostenitori che lo attendono sotto casa, non sono mancati momenti di contestazione e un dibattito acceso sulla proporzionalità della detenzione immediata.

L’appello del 2026 sarà un nuovo processo, non un semplice riesame. Testi da riascoltare, prove da rivalutare, sequenze da rimettere in ordine. Tutto si ridurrà alla tenuta dell’impianto indiziario: la Corte dovrà valutare se l’insieme dei contatti, dei flussi, delle promesse e delle ricostruzioni libiche costituiscano davvero un disegno coerente, come ha stabilito il primo grado, oppure se le crepe nella catena probatoria possano modificare le responsabilità individuali. Per Sarkozy, il nodo politico più delicato è quello dell’interdizione dai pubblici uffici: un eventuale mantenimento della misura segnerebbe una frattura definitiva nella sua capacità di influenzare la vita pubblica.

Intorno al processo si muove anche un’ombra europea. Con una condanna già definitiva nel caso delle écoutes, e un ricorso annunciato alla CEDU, la difesa potrebbe decidere di portare davanti ai giudici di Strasburgo anche il dossier libico, se e quando diventerà definitivo. È l’altra faccia di una vicenda che, per alcuni, testimonia la forza dell’indipendenza della magistratura francese e, per altri, il rischio di un eccesso di protagonismo giudiziario nel perimetro politico.

La Francia osserva, si divide, commenta. E mentre si avvicinano le udienze fra marzo e giugno 2026, resta una domanda che attraversa corridoi istituzionali e bistrot parigini: questa è la nuova normalità di una Repubblica che pretende trasparenza anche dai suoi vertici, o il segno di un giustizialismo destinato a travolgere tutto? L’appello potrà confermare l’incubo di Nicolas Sarkozy come pagina di storia giudiziaria consolidata o trasformarlo in un caso rimesso in discussione. In ogni caso, la sentenza non chiuderà soltanto un processo: indicherà il modo in cui la Francia vuole guardare ai propri leader, alla propria memoria istituzionale e alla propria idea di democrazia.

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