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10 Novembre 2025 - 23:14
Sarkozy evaso dalla vergogna: libero sì, ma con la giustizia alle calcagna
Venti giorni dietro le mura di La Santé, poi la libertà. Ma non quella piena. Nicolas Sarkozy è tornato a casa, sotto controllo giudiziario, con una serie di divieti che raccontano più di qualsiasi sentenza la fragilità della sua posizione e la cautela con cui la magistratura francese osserva ogni suo passo. È un ritorno che non sa di resa dei conti, ma di intermezzo. La porta del carcere si è richiusa alle sue spalle la mattina del 10 novembre 2025, lasciando alle telecamere l’immagine di un ex capo dello Stato che definisce la prigionia “un incubo” e che, nello stesso respiro, promette di “dimostrare l’innocenza”. La Francia lo guarda camminare su una linea sottile: libero, sì, ma ingabbiato da una rete di controlli senza precedenti per un ex presidente.
La Corte d’appello di Parigi ha concesso la libertà vigilata dopo appena venti giorni di detenzione, in esecuzione del verdetto di primo grado del 25 settembre scorso nel processo per i presunti finanziamenti libici alla campagna del 2007. Ma la decisione, dietro la formula neutra della scarcerazione, contiene una serie di paletti rigidi. Sarkozy non potrà lasciare la Francia, né entrare in contatto con altri imputati o con figure coinvolte nel procedimento. E soprattutto, in un gesto inedito nella storia della Quinta Repubblica, non potrà comunicare con membri chiave del Ministero della Giustizia, compreso il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, protagonista di una visita in carcere che ha sollevato più di un sopracciglio. È una misura che non riguarda soltanto l’uomo, ma l’istituzione che ha rappresentato: un segnale di quanto la giustizia francese tema qualsiasi interferenza, anche solo potenziale, sugli apparati dello Stato.
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La prossima udienza in appello è fissata per marzo 2026. Pochi mesi per un processo che ha divorato anni di indagini, carte e sospetti. E che ora riparte con un nodo centrale: la condanna a cinque anni di reclusione per associazione a delinquere, accompagnata da una multa da centomila euro, e l’assoluzione dalle accuse più pesanti di corruzione, appropriazione indebita e finanziamento illecito. Una sentenza bifronte, che da un lato individua una regia occulta per ottenere fondi dal regime di Mu’ammar Gheddafi, dall’altro ammette che non esiste prova della confluenza di quel denaro nei conti della campagna presidenziale. È proprio in questa ambiguità che si giocherà l’appello. Gli avvocati dell’ex presidente cercheranno di demolire la definizione stessa di “associazione a delinquere”, sostenendo che non si può parlare di complotto senza un atto concreto, senza un flusso di denaro accertato. La Procura, invece, difenderà la tenuta del castello accusatorio fondato su viaggi sospetti, contatti informali e testimonianze che delineerebbero una vera e propria “conspiration” politico-finanziaria.
Il controllo giudiziario imposto a Sarkozy, con il divieto di contatti con esponenti del governo, ha un sapore profondamente politico. È il riconoscimento, da parte dei giudici, del rischio di cortocircuito istituzionale che può derivare da un ex presidente ancora circondato da fedelissimi, ex funzionari dei servizi e uomini d’apparato. Non è solo una misura precauzionale: è la fotografia di una Repubblica che si protegge da se stessa. E mentre la giustizia mette argini, la politica osserva con disagio. A destra c’è chi esulta per la scarcerazione parlando di “giustizia restituita”, e chi invece teme che la lunga ombra giudiziaria continui a logorare il partito, già in crisi di identità e leadership. Sarkozy, nonostante tutto, conserva ancora un magnetismo che a molti appare intatto. Per alcuni resta un simbolo di energia e decisionismo, per altri una zavorra che impedisce il rinnovamento.
Durante l’udienza, un passaggio ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica più dei tecnicismi processuali: la Corte ha reso noti i dati patrimoniali dell’ex presidente, oltre quattro milioni e mezzo di reddito nel 2023 e beni immobiliari che sfiorano i dieci milioni. Numeri che hanno alimentato un dibattito già teso, soprattutto dopo che erano emerse notizie su presunti contributi e donazioni ricevuti per coprire le spese personali durante la detenzione. È la prova che questo processo si muove su più piani: non solo quello penale, ma anche quello simbolico dell’etica pubblica e della percezione di giustizia.
Sul tavolo, intanto, restano i due precedenti che pesano come macigni. L’“affaire Bismuth”, che nel 2021 portò alla condanna per corruzione e traffico d’influenze, definitiva in Cassazione nel dicembre 2024. E il caso Bygmalion, relativo ai conti gonfiati della campagna del 2012, confermato in appello con pena ridotta a un anno, metà da scontare. Processi distinti, certo, ma che definiscono un profilo giudiziario già compromesso. La loro eco si farà sentire anche nel procedimento libico, come sfondo che i giudici d’appello non potranno ignorare nel valutare l’attendibilità e la consapevolezza dell’imputato.
Il cuore del caso libico, tuttavia, resta lo stesso da oltre dieci anni: l’accusa di aver ricevuto denaro da Tripoli per finanziare la corsa all’Eliseo nel 2007. Testimonianze di ex dignitari, flussi bancari opachi, il celebre documento pubblicato da Mediapart nel 2012 — da sempre bollato come falso dalla difesa —, la morte sospetta dell’ex ministro Shukri Ghanem e le note di Béchir Saleh, ex consigliere di Gheddafi. È su questo intreccio che i giudici di primo grado hanno costruito la condanna, senza però riuscire a collegare in modo diretto i fondi libici alla macchina elettorale. Un’assenza che la difesa considera fatale per la tenuta del verdetto. In appello si deciderà se la somma di indizi basti per confermare l’impianto accusatorio o se, al contrario, le lacune probatorie faranno cadere l’intero edificio.
Il caso Sarkozy è diventato ormai un laboratorio di diritto e di politica. Quando il 21 ottobre scorso l’ex presidente è entrato nel carcere di La Santé, la Francia ha assistito al primo caso di un ex capo dello Stato effettivamente recluso. La sua liberazione non cancella quella fotografia, ma la ricolloca in una dimensione di equilibrio precario tra presunzione d’innocenza e credibilità delle istituzioni. La Corte ha scelto una via di mezzo: niente cella, ma una libertà vigilata che non consente margini di manovra. Una formula prudente, pensata per evitare tanto l’effetto vittima quanto quello del privilegio.
Sul fronte europeo, Sarkozy ha annunciato la volontà di ricorrere alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per il capitolo Bismuth, e non esclude ulteriori azioni se anche l’appello dovesse fallire. Ma per ora, l’attenzione resta tutta sul processo libico, che si preannuncia come una prova decisiva non solo per lui, ma per l’intero equilibrio politico francese. Una conferma della condanna consoliderebbe l’immagine di una magistratura inflessibile anche di fronte al potere; un ribaltamento riaprirebbe ferite profonde nel rapporto tra politica e giustizia.
Alla fine, resta l’immagine di un uomo di settant’anni che incarna contemporaneamente la vulnerabilità dell’imputato e la resilienza del leader. La scarcerazione non è un punto d’arrivo, ma una pausa nella marcia di un processo che ha già fatto la storia. Finché non arriverà la sentenza d’appello, Sarkozy resterà sospeso tra due mondi: quello dell’uomo che dice di essere vittima di un pregiudizio, e quello dell’ex presidente che la Francia, divisa, non sa se considerare un simbolo o un monito.
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