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13 Novembre 2025 - 09:56
Allarme senza precedenti nei pronto soccorso del Torinese: adolescenti travolti da ansia e disturbi alimentari
Nel silenzio dei corridoi ospedalieri, tra genitori che stringono mani tremanti e medici che corrono da una stanza all’altra, i numeri raccontano una realtà che non si può più ignorare. I pronto soccorso del Torinese stanno registrando un’ondata senza precedenti di accessi psichiatrici da parte di bambini, adolescenti e giovani adulti. Un’ondata che non è frutto della contingenza, né un effetto improvviso del Covid, ma il punto di caduta di una trasformazione profonda, iniziata più di vent’anni fa e arrivata oggi al limite.
Le visite psichiatriche pediatriche, che nel 2018 rappresentavano lo 0,7% del totale, nel 2021 hanno raggiunto l’1,5%, raddoppiando nel giro di tre anni. I casi più frequenti sono quelli di agitazione psicomotoria, pari al 33% degli accessi: ragazzi in preda all’ansia, alla rabbia, alla paura, in condizioni di instabilità tali da richiedere un intervento immediato. Subito dopo compaiono le motivazioni legate al suicidio: ideazione e tentativi costituiscono il 17% degli accessi. L’ansia da sola rappresenta il 16%. E poi ci sono i disturbi alimentari, un’emergenza nell’emergenza, che colpisce un giovane su dieci. Numeri che riguardano esclusivamente minori tra 0 e 18 anni.

A raccogliere gran parte di questi dati è la neuropsichiatra infantile Chiara Davico, docente all’Università di Torino e medico dell’ospedale Regina Margherita. È lei a tracciare la cornice di una crisi che, racconta, «è nata prima del Covid e riguarda tutti i Paesi ad alto reddito». Le sue parole non cercano una semplificazione, perché la complessità del problema non lo permette. «È la tempesta perfetta: questi adolescenti vivono un periodo di vulnerabilità perché sono cambiate tante cose nella nostra società, se si guarda agli ultimi 20 o 25 anni» afferma. La pandemia, secondo Davico, non è stata l’origine ma l’acceleratore: «Non ha fatto bene, ma il fenomeno era iniziato molto prima. Dopo il Covid, semplicemente, l’opinione pubblica ha aperto gli occhi».
Le cause sono molteplici e stratificate. Le conseguenze della crisi economica del 2008, l’esposizione continua al mondo digitale, l’incertezza per il futuro, le guerre, la crisi climatica, il mutamento dei modelli familiari, la fragilità delle figure adulte, la solitudine crescente. Un mosaico che non può essere ridotto alla sola colpa degli smartphone. «Il mondo virtuale è una delle componenti» precisa Davico. «Ma si aggiunge a una crisi più ampia: di relazioni, di esperienze, di adulti di riferimento».
Se i minori stanno male, i giovani adulti non stanno meglio. Anzi, i dati parlano di un’escalation ancora più forte. Tra il 2019 e il 2023, nel Torinese, le diagnosi di schizofrenia e psicosi sono cresciute del 207% nella fascia 21-25 anni e del 246% tra i 26 e i 30. Ma la crescita più impressionante riguarda i disturbi della personalità: +767% tra i 18-20 anni, +1425% tra i 21-25, +540% nella fascia 26-30. Numeri che, presi insieme, delineano un quadro di fragilità mentale diffusa e in aumento.
C’è poi un aspetto che riguarda la differenza di genere. Le ragazze arrivano in ospedale molto più spesso dei ragazzi. Al Regina Margherita, l’80% dei ricoveri di neuropsichiatria infantile degli ultimi quindici anni riguarda le femmine. Ma Davico invita alla cautela: «Non significa che le donne stiano peggio. I comportamenti sono diversi. Una ragazza chiede aiuto; un maschio può agire in modo distruttivo verso sé o verso gli altri».
Di fronte a una fotografia così nitida e allarmante, l’Università di Torino ha deciso di intervenire. Il sociologo Michele Miravalle, insieme a Davico, ha avviato un gruppo di lavoro interdisciplinare per affrontare il disagio giovanile, analizzandone non solo gli aspetti clinici ma anche quelli sociali e giuridici. L’obiettivo è costruire una visione completa del fenomeno, per capire come intervenire e come garantire un supporto reale e coordinato tra ospedali, servizi sociali, scuole e atenei. Da questo percorso nasce il nuovo corso di studi interdipartimentale “Giovani: controllo sociale e medicalizzazione”, che partirà a febbraio e coinvolgerà docenti di Giurisprudenza e di Scienze della sanità pubblica e pediatriche. Un progetto che punta a formare nuove figure professionali capaci di comprendere e affrontare la complessità del disagio contemporaneo.
È una risposta culturale prima ancora che accademica. Perché la crisi in cui vivono bambini, adolescenti e giovani adulti non è un’ondata passeggera. È un fenomeno strutturale, radicato, amplificato dagli shock degli ultimi quindici anni e destinato a segnare il futuro della salute pubblica. In questo scenario, il lavoro dei medici, degli psicologi, dei sociologi e dei giuristi diventa un tentativo di ricostruire legami, prospettive, strumenti. E soprattutto di non lasciare che una generazione intera si perda nel silenzio dei reparti di emergenza.
Oggi è la giornata della "vulvodinia". Cosa accade a noi donne quando il dolore non è visibile
«Ricordo mia madre che piangeva settimane prima di una visita ginecologica.»
È da questa immagine che inizia la storia di Alessandra Marchi, ostetrica e fondatrice del Centro Salute Pelvi, e il suo legame con la vulvodinia. Da bambina vedeva sua madre soffrire di un dolore che non trovava nome, un dolore che tornava per restare, senza spiegazioni. Non c’erano parole, non c’erano diagnosi. «Era un dramma familiare», racconta oggi.
Ed è forse lì, in quel corridoio dove si impara a riconoscere la sofferenza degli altri, che nasce la sua vocazione: capire quel dolore invisibile e trovare un modo per accompagnare chi lo attraversa.
Quel dolore oggi ha un nome: vulvodinia.
Si tratta di un’infiammazione delle fibre nervose della vulva, associata a un’iperattività del pavimento pelvico: muscoli che dovrebbero rilassarsi, ma rimangono contratti, come se fossero sempre sul punto di difendersi. Il dolore può essere bruciante, pulsante, intermittente o una presenza continua. A volte è come avere spilli nella pelle. Altre volte è una scossa. Altre ancora è una soglia che non si abbassa mai.
Si stima che una donna su sette, nel corso della vita, possa sperimentare la vulvodinia (Harlow & Stewart, American Journal of Obstetrics & Gynecology).
Una su sette non è un’eccezione. È presenza. È quotidianità. Solo che non se ne parla.
«Il medico è abituato a riconoscere ciò che vede», dice Marchi.
Ma la vulvodinia non si vede.
Non arrossa sempre, non lascia cicatrici, non produce ferite.
Ci sono vulve che sembrano “perfette” ed eppure sono infiammatissime.
Il dolore è reale, ma non è visibile.
E noi viviamo in una cultura che crede tanto all’immagine.
È come se la sofferenza dovesse essere mostrata per essere creduta.
Solo allora il dolore diventa autorizzato.
Per molte donne questo significa una cosa crudele:
se il corpo appare “integro”, “funzionante”, “in ordine”, il dolore viene messo in dubbio.
Come se servisse un crollo tangibile per essere ascoltate.
Lo vediamo anche altrove:
chi soffre di disturbi alimentari dice spesso:
«Finché sto in piedi, finché sembro stabile, nessuno crede alla fatica.»
Come se per essere credute si dovesse perdere qualcosa: peso, voce, lucidità.
La vulvodinia incrina questa logica.
È un dolore che non può essere mostrato.
Non lascia cicatrici, non consuma il corpo, non lo rende leggibile.
Resta dentro. E proprio per questo viene messo in discussione.
In una società che riconosce solo ciò che appare, il dolore invisibile diventa un lavoro in più:
non solo sopportarlo, ma doverlo raccontare per essere credute.
Marchi lo sa da sempre: prima come figlia, poi come professionista.
Dopo la laurea in ostetricia arrivano da lei le prime pazienti, «ragazze disperate», dice.
Rivede sua madre in ognuna.
Sono casi complessi, corpi che hanno sopportato anni di dolore, diagnosi mancate, visite in cui si sono sentite dire: «È tutto nella tua testa.»
La sua formazione di base non basta: si forma, studia, si specializza con il professor Pesce, una figura storica della vulvodinia in Italia.
«Non basta essere tecnicamente impeccabili», dice. «Serve una vocazione: contenere il dolore dell’altra.»
Il trattamento, infatti, non è standard.
Si parte dall’ascolto. Dalla storia. Dalla postura. Dal tono muscolare.
«Se c’è dolore, non serve forzare. Si parte da dove il corpo può stare.»
La sessualità è spesso la prima a farsi colpire.
Quando il dolore è presente, anche l’intimità cambia forma: non è più immediata, diventa attenta, sorvegliata.
Marchi lo dice senza girarci intorno: «La sessualità non è solo penetrazione.»
È il modo in cui abitiamo il nostro corpo e il modo in cui percepiamo l’altro.
In alcuni casi, il percorso passa anche attraverso strumenti concreti, come vibratori e sex toys utilizzati in modo terapeutico. Non per “aggiungere qualcosa”, ma per ricostruire la possibilità del contatto. È un ritorno lento, graduale, impercettibile. I progressi non si misurano in atti o centimetri, ma in momenti in cui il corpo non si difende.
«Ricordo una paziente che mi disse che grazie alla vulvodinia aveva scoperto un lato della sua sessualità che non avrebbe immaginato.»
Marchi lo racconta con una risata spontanea, di riconoscimento: il corpo, quando trova spazio, può aprire stanze che prima non vedeva.
Ma non è sempre così.
Per molte, la memoria del dolore è più forte della curiosità o del desiderio.
Alcune donne si irrigidiscono solo all’idea del contatto.
Qui entra la psicoterapeuta sessuale, per restituire al corpo la possibilità di fidarsi di nuovo.
Perché il dolore non si deposita solo nei tessuti: diventa un riflesso, una risposta automatica che il corpo mette tra sé e il mondo.
E quel riflesso si può sciogliere lentamente, come si disimpara una paura.
Come la paura del buio.
Anche la relazione di coppia fa parte della cura.
Marchi e le sue colleghe hanno creato materiali e sedute per aiutare nella comunicazione.
A volte il partner può entrare in seduta.
Non come testimone, ma per imparare a restare vicino.
La cura, qui, è relazionale: tenere insieme due corpi anche quando uno dei due fa male.
Ma perché tutto questo sia possibile, serve competenza.
E oggi, in Italia, questa competenza non è garantita: si costruisce.
Non esiste un percorso universitario per la riabilitazione del dolore pelvico complesso. Le professioniste si formano da sole.
E, dove la formazione manca, le diagnosi arrivano tardi e le cure diventano più costose.
Per questo Marchi fa parte del Comitato Vulvodinia e Neuropatie Pelviche, insieme a molte sue ex pazienti.
L’obiettivo è semplice: accesso alle cure farmacologiche e riabilitative per tutte.
Diritto, non privilegio.
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo.»
Articolo 32 della Costituzione.
Se la salute è un diritto, perché il dolore deve diventare un lusso per chi può permettersi di curarlo?
A Torino esiste il CEMUSS: un centro pubblico che prova a rispondere a questa necessità.
Ma i centri così sono pochi. E non bastano.
Negli ultimi anni, però, qualcosa si è mosso.
«Ricordo donne che non lo dicevano nemmeno alle amiche», racconta Marchi.
Poi hanno visto Giorgia Soleri parlarne apertamente, senza vergogna, accanto a un compagno molto visibile, molto desiderato, che non si è tirato indietro.
Quell’immagine ha lavorato in silenzio:
se lui non scappa, forse non deve scappare nessuno.
Alcune donne hanno trovato le parole.
Altre sono scese in piazza.
Quando esce dal privato, quel dolore non è più solo di chi lo porta.
«Dalla vulvodinia si può guarire», dice Marchi.
Nel suo studio c’è un quaderno, il libretto delle guarite.
Ogni nome è un corpo che torna a sé.
Sua madre oggi ha settantacinque anni.
Sta bene. Ha imparato a vivere senza quel dolore.
E allora tutto torna al punto di partenza:
una bambina che guarda sua madre soffrire, e una donna adulta che oggi accompagna altre donne fuori da quella stessa stanza.
La cosa fondamentale, ora, è non lasciarle sole.
Non renderle di nuovo invisibili.
Marchi resta un momento in silenzio.
Poi si corregge: «Oggi di vulvodinia si deve guarire.»
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