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10 Novembre 2025 - 10:37
“Resistenza, scelta di libertà”: a Cirié il Liceo Galilei dà voce alla memoria del comandante Brunero
Cirié ha scelto di ricordare la Resistenza attraverso le parole dei più giovani. Giovedì 6 novembre, nella sede storica della Società Operaia di Cirié, si è svolta la cerimonia di premiazione degli studenti della classe 5ª G OSA del Liceo Galilei, protagonisti del progetto “Resistenza, scelta di libertà”, promosso dalle sezioni ANPI di Cirié e Nole e dalla Società Cooperativa di Consumo Ciriacese, con il patrocinio del Comune di Cirié.
Il percorso, iniziato lo scorso anno scolastico, ha rappresentato un vero laboratorio di memoria e cittadinanza, in cui i ragazzi hanno riscoperto la storia della lotta partigiana nelle valli del Canavese. Un cammino fatto di incontri con storici, testimoni diretti e momenti di riflessione collettiva, culminato nella camminata a Pian Audi, sui sentieri che un tempo percorrevano le brigate partigiane.
Il progetto si è concluso con un concorso di scrittura: gli studenti hanno dato vita a racconti ispirati alla figura di Gennarino Brunero, operaio, alpinista e comandante partigiano, simbolo della Resistenza ciriacese. Dai loro testi emerge non solo la ricostruzione storica di un uomo e di un’epoca, ma la capacità di interpretare il significato profondo delle sue scelte. Brunero, detto “Gino”, fu padre e combattente, guida e amico, pronto a sacrificare se stesso per difendere i valori di libertà, pace e giustizia.
Per documentarsi, gli studenti hanno consultato il volume “Cercando Gino” di Maria Luisa Giacometti, Sergio Bardino e Vilma Demitri, ma il loro lavoro è andato oltre l’archivio: ha cercato emozioni, conflitti interiori, domande senza tempo. Nei racconti, Brunero non è solo un nome inciso su una targa, ma un uomo vivo, che affronta la paura e il dolore della separazione dalla famiglia pur di non tradire la propria coscienza.
Il testo vincitore sarà trasformato in un audio accessibile tramite QR Code, apposto accanto alla targa commemorativa di Gennarino Brunero all’esterno de “Il Girasole”, l’ex ospedale di Piazza Castello dove il comandante morì il 26 febbraio 1945. Sarà un modo per restituire voce e memoria a chi, con coraggio, contribuì alla liberazione di Torino e del Piemonte.
La professoressa Antonella Carlucci, che ha seguito con passione tutte le fasi del progetto, ha sottolineato come «il valore della Resistenza non appartiene solo al passato, ma al presente e al futuro, perché riguarda la responsabilità di ogni cittadino di difendere la libertà e la dignità umana».
Durante la cerimonia, applausi e commozione hanno accompagnato gli studenti sul palco. Perché, in un tempo in cui la memoria rischia di sbiadire, la loro voce riaccende il senso di una scelta che fu collettiva e umana: resistere per essere liberi.

Ciriè, 1911. Una piccola città operaia alle porte di Torino. È qui che nasce Gennarino Brunero, figlio di una famiglia modesta ma unita, cresciuto tra la fatica del lavoro e l’amore per la montagna. Il padre gli insegna il valore del sacrificio, la madre quello della gentilezza. La sua giovinezza scorre tra le fabbriche e le cime innevate: lavora all’Ipca, lo stabilimento chimico dove ogni turno sa di fatica, ma anche di dignità. E poi c’è lo sci, la passione che diventa libertà. «Chi ama la montagna ama la libertà», ripete ai ragazzi del CAI di Ciriè, dove insegna non solo a sciare, ma a respirare indipendenza. Le sue lezioni in alta quota sono anche un modo per sottrarre i giovani ai “sabati fascisti”, quegli addestramenti obbligatori che imponevano disciplina e conformismo.
Ma l’Italia di quegli anni non lascia spazio alle scelte personali. Brunero cresce sotto il regime fascista, senza mai prendere la tessera del partito. A ventun anni viene arruolato nel Regio Esercito, e tra un richiamo e l’altro finisce per passare gran parte della giovinezza sotto le armi. Si sposa con Angela, che lo rimprovera affettuosamente di “essere sempre via”, e diventano genitori di tre figli. Poi arriva la guerra.
Il 3 settembre 1943, il governo Badoglio firma l’armistizio con gli Alleati. L’Italia è spaccata: i tedeschi occupano il Nord, Mussolini rifonda la Repubblica Sociale di Salò. L’esercito si disgrega. Gennarino si guarda intorno e sceglie: non può più combattere per un regime che ha tradito il suo Paese. “La libertà vale ogni sacrificio”, dice. Sale in montagna, a Case Gianinet, sopra Corio. Ha 32 anni e un nome di battaglia: Gino. Attorno a lui si radunano ragazzi poco più che adolescenti, uniti dall’idea di liberare l’Italia dai nazifascisti. Nascono le prime formazioni partigiane canavesane.
Le giornate sono un miscuglio di freddo, paura e coraggio. A volte rientra a Ciriè, rischiando la vita per rivedere i figli. I tedeschi braccano la sua famiglia, perquisiscono casa. Gennarino allarga la grata di una finestra, pronto alla fuga. Un giorno riesce a scappare per un soffio, ma i soldati restano. Sua moglie e i bambini vengono minacciati, quasi fucilati. Poi la guerra lo richiama ancora tra i boschi. Con i suoi uomini trasporta un cannone smontato, pezzo per pezzo, fino a Case Gianinet, per difendere il ponte di Fandaglia. È un’impresa disperata, ma simbolica: un atto di resistenza più morale che militare.
Nel giugno del 1944, i tedeschi arrivano proprio lì. Portano con sé un uomo legato alla canna di un carro armato: è Alessandro Bertetto, detto Paulinet, compagno partigiano torturato e forse già morto. Gennarino ordina ai suoi: “Non sparate”. È un gesto di pietà in un tempo che di pietà non ne conosce. Le settimane successive sono un inferno: rastrellamenti, fughe verso la Francia, notti nel gelo, fame, paura. Ma ci sono anche mani tese: il dottor Mussa, una donna che offre rifugio e perde la casa, suor Ambrosetta Ottolenghi, che lo salva in ospedale, e don Giachetti, che lo nasconde in chiesa per permettergli di assistere alla prima comunione di sua figlia.
Poi arriva l’ultima alba, quella del 26 febbraio 1945. Gennarino si ferma a dormire da un amico a Vauda di Nole. Qualcuno lo tradisce. I tedeschi circondano la casa. Prova a fuggire, ma i pantaloni si impigliano in una rete. Lo colpiscono con una raffica di mitraglia. Rimane ferito per ore, solo, in un cortile freddo. Lo portano all’ospedale di Ciriè nel pomeriggio, dove muore dissanguato. Aveva 33 anni.
Un bambino di sette anni assiste alla scena: è il figlio di Paulinet, il compagno ucciso mesi prima. Sarà lui a raccontare quel momento, anni dopo, come un simbolo della generazione che vide morire i padri per conquistare la libertà.
Poco prima di spirare, Gennarino rivede i figli. Il più piccolo gli si avvicina: «Papà, stai sanguinando». Sono le ultime parole che sente. Non riceverà mai la medaglia d’oro che avrebbe potuto aiutare la sua famiglia, ma il suo nome resta inciso nella memoria della Resistenza canavesana.
Oggi, rileggendo la sua storia, la sua voce sembra ancora parlarci: “Abbiamo combattuto per dare all’Italia la possibilità di scrivere da sola le proprie leggi”. Quella libertà, conquistata tra la neve e il sangue, divenne Costituzione. Ed è in quel testo – nei suoi articoli, nei suoi principi – che il sacrificio di uomini come Gennarino Brunero continua a vivere.

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