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02 Novembre 2025 - 12:47
Torino diventa il set di “Nord Sud Ovest Est”: quattro giorni di riprese nel cuore della città
Dopo Hanno ucciso l’Uomo Ragno (tra le serie Sky Original più viste di sempre), “Nord Sud Ovest Est” – una produzione Sky Studios e Groenlandia, società del gruppo Banijay, prodotta da Matteo Rovere e Sydney Sibilia – torna con otto nuovi episodi per raccontare le vicende che portarono al secondo album della band di Pavia, al culmine di un successo travolgente.
La nuova stagione è scritta da Sydney Sibilia, Francesco Agostini e Marco Pettenello, e diretta da Sydney Sibilia, Alessio Lauria, Simone Godano e dalla regista piemontese Alice Filippi.
Saranno quattro i giorni di riprese realizzati con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, tra varie location del centro città.
L’epico finale della storia degli 883 ci porta nel mondo di Nord Sud Ovest Est. Max e Mauro stanno coronando il loro sogno: essere primi in classifica nel 1993. Ma la vita delle popstar, a guardarla da dentro, è incredibile quanto incasinata. Tra Max Pezzali e Mauro Repetto qualcosa inizia a cambiare: qual è il prossimo sogno? La grande avventura li porta nella Milano della moda e nell’America sognata da ragazzini. Ma una volta arrivati lì, troveranno davvero se stessi? E riusciranno a restare amici come agli inizi?

Chi l’avrebbe detto che un gruppo nato nei garage di Pavia negli anni ’80 sarebbe diventato protagonista di una delle serie Sky Original più viste di sempre? Eppure è successo. “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” non è solo una serie tv: è un viaggio dentro l’Italia che cambiava, un ritratto di generazione e, allo stesso tempo, un’operazione di memoria collettiva. Perché il successo della fiction prodotta da Sky Studios e Groenlandia, con la regia di Sydney Sibilia, non si spiega solo con la nostalgia. Si spiega con la capacità di raccontare un’epoca che molti ricordano ma pochi hanno davvero capito.
Il racconto parte da Pavia, città provinciale e grigia dove due ragazzi – Max Pezzali e Mauro Repetto – cercano una via d’uscita a colpi di sogni, canzoni e motorini. È lì che nasce l’idea degli 883, una band senza pretese che in poco tempo diventa un fenomeno nazionale. Ma la serie non si limita a celebrare. Anzi, la forza di “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” è proprio nel mostrare l’Italia che stava per diventare quella che conosciamo oggi: più veloce, più individualista, più televisiva.
Sibilia – che già con Smetto quando voglio aveva raccontato l’ironia amara del fallimento – qui fa un passo in più. Non mette in scena un’agiografia, ma un romanzo di formazione collettivo. Max e Mauro non sono eroi: sono due ragazzi normali, sbagliati, impacciati, ma autentici. Ed è proprio questa autenticità, riflessa nei volti degli attori Matteo Oscar Giuggioli e Emanuele Palumbo, a conquistare lo spettatore. In un’epoca di serie iper-patinate, Hanno ucciso l’Uomo Ragno restituisce il gusto delle storie fatte di coraggio e disillusione.
Il titolo, preso dal brano che nel 1992 lanciò gli 883 nell’Olimpo del pop italiano, funziona come chiave simbolica. Quell’“uomo ragno” ucciso è la fine dell’infanzia, la perdita di una purezza generazionale che gli anni ’90 avrebbero spazzato via. La serie, ambientata proprio in quella transizione, diventa così una riflessione più ampia su come il successo cambia le persone, i rapporti, le città. L’Italia di Max e Mauro è ancora fatta di bar, juke-box e poster dei Queen, ma già prelude ai telefonini, alla moda milanese, al mito dell’apparire.
A fare la differenza, però, è il tono. Sibilia non giudica, osserva. E nel farlo, mette in luce la dolcezza malinconica di chi non sa ancora che cosa perderà. Le scene di provincia, con i ragazzi in Vespa e le prime feste, sono girate con una cura quasi affettiva. I dettagli – un flipper acceso, un walkman, una lattina di Sprite – non sono semplice nostalgia: sono reperti emotivi, tracce di un tempo in cui la musica era ancora un modo per dirsi vivi.
Anche la colonna sonora contribuisce al successo. I brani storici degli 883, reinterpretati e inseriti nel racconto, diventano parte integrante della narrazione. “Sei un mito”, “Come mai”, “Nord Sud Ovest Est” non sono solo hit, ma capitoli di una biografia nazionale. Ogni canzone risveglia ricordi e, insieme, parla ai più giovani, che scoprono in quelle melodie una sincerità ormai rara.
Dal punto di vista produttivo, Hanno ucciso l’Uomo Ragno rappresenta anche un salto di qualità per la serialità italiana. Sky e Groenlandia hanno costruito una macchina narrativa moderna, con un ritmo cinematografico e una fotografia che mescola realismo e sogno. Non c’è mai compiacimento estetico: le luci fredde delle notti padane e i colori saturi delle discoteche rendono perfettamente il contrasto tra la provincia che stringe e la fama che travolge.
Il pubblico ha premiato questa onestà. La serie ha raccolto milioni di visualizzazioni su Sky e Now, diventando una delle più viste nella storia della piattaforma. Ma più dei numeri, conta la partecipazione emotiva: sui social gli spettatori hanno parlato di “commozione”, “identificazione”, “ritorno all’adolescenza”. Segno che dietro la leggerezza delle hit pop, il racconto ha toccato corde profonde.
E forse è proprio questo il segreto: Hanno ucciso l’Uomo Ragno non racconta solo gli 883, racconta noi. La provincia che sogna di scappare, l’amicizia che si incrina davanti al successo, l’ingenuità che si paga con la disillusione. Ogni spettatore, in fondo, ha avuto un “Max” o un “Mauro” nella propria vita. E quando la serie si chiude, con quella malinconia sospesa, resta una domanda che vale più di tutte: quando abbiamo smesso di crederci davvero?
Il successo, dunque, non è solo televisivo. È culturale. È la prova che le storie semplici, se raccontate con verità e precisione, possono ancora unire generazioni. Sibilia e la sua squadra hanno colto il punto: non serve reinventare il passato, basta guardarlo negli occhi. E così, trent’anni dopo quel 1992, l’Uomo Ragno non è morto affatto. Vive nelle canzoni, nei ricordi e, adesso, in una serie che ha rimesso gli 883 al centro della memoria pop italiana.
C’è un momento, nella storia di ogni gruppo, in cui il successo diventa troppo grande per stare dentro a una canzone. È lì che si arriva a “Nord Sud Ovest Est”, la nuova stagione della serie Sky Original che riprende il filo di “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” e lo porta un passo oltre. Perché se la prima parte era il racconto di un sogno che nasce, questa è la storia di un sogno che rischia di scoppiare.
Gli 883 non sono più due ragazzi di Pavia che provano a farsi notare. Sono un fenomeno nazionale, icona pop di un’Italia che nel 1993 si specchiava nei suoi idoli da classifica. Max Pezzali e Mauro Repetto cavalcano l’onda, ma scoprono che dietro le luci dei riflettori c’è sempre una zona d’ombra. Ed è proprio lì che la serie sceglie di restare: tra l’entusiasmo e la stanchezza, tra l’amicizia e la distanza, tra il successo e il bisogno di capire chi si è davvero.
Prodotta da Sky Studios e Groenlandia, con la regia di Sydney Sibilia, Alessio Lauria, Simone Godano e della piemontese Alice Filippi, “Nord Sud Ovest Est” racconta otto nuovi episodi di formazione e smarrimento. Le riprese, sostenute dalla Film Commission Torino Piemonte, si svolgono tra le vie del centro di Torino, scelta non casuale: una città che sa essere elegante e malinconica, perfetta per questa storia di gioventù e disincanto.
La trama parte dal culmine della gloria. È il 1993, gli 883 sono primi in classifica, i loro brani passano in radio a ogni ora, i concerti fanno il tutto esaurito. Ma qualcosa si incrina. L’adolescenza è finita, le aspettative crescono, e le strade di Max e Mauro cominciano a divergere. Lui, l’autore riflessivo, cerca una direzione; l’altro, il sognatore, non vuole scendere dal palco. È il prezzo del successo: non sapere più se il sogno appartiene ancora a te o al pubblico.
Questa volta Sibilia abbandona la leggerezza del debutto per entrare nei territori della maturità. La serie è meno vintage e più intima, meno spensierata e più lucida. Si parla di identità, di amicizia e di perdita, ma sempre con quell’ironia di fondo che rende la malinconia sopportabile. Non c’è retorica, non c’è autocommiserazione. C’è la vita, quella vera, che cambia mentre provi a starle dietro.
Sul piano visivo, “Nord Sud Ovest Est” è una passeggiata nel tempo. Le atmosfere della provincia lasciano spazio alla Milano della moda, simbolo di un’Italia che corre verso la modernità. L’estetica si fa più luminosa, quasi abbagliante, a segnare il passaggio dall’intimità alla ribalta. Ma dietro il luccichio c’è sempre la stessa domanda: che cosa resta, quando tutto brilla troppo?
Anche la musica si trasforma. Se “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” aveva la freschezza di un esordio, “Nord Sud Ovest Est” è l’album della consapevolezza. Nelle canzoni c’è già il seme di quella malinconia che accompagnerà Pezzali negli anni successivi: “Come mai”, “Rotta per casa di Dio”, “Gli anni”. Brani che parlano di partenze, addii, cambiamenti. La serie li usa come specchio delle emozioni dei protagonisti: ogni nota diventa una pagina di diario.
Eppure, nonostante i contrasti, “Nord Sud Ovest Est” non è una storia triste. È un racconto di resilienza e libertà, il momento in cui due ragazzi capiscono che si può perdere tutto tranne ciò che si è stati. La loro amicizia si incrina, ma non si spezza. La distanza diventa una forma di rispetto. È il prezzo che si paga quando si cresce davvero.
Il pubblico, dopo il trionfo della prima stagione, attendeva questo secondo capitolo con una curiosità quasi affettiva. E le aspettative sono state ripagate. La serie, pur mantenendo la scrittura ironica e pulita di Sibilia, si è fatta più profonda, più adulta. Gli spettatori non cercano solo la nostalgia, ma un dialogo con il passato. Vogliono capire perché quelle canzoni continuano a parlare a distanza di trent’anni.
Perché sì, “Nord Sud Ovest Est” è una storia sugli 883, ma anche su un Paese intero che da allora non ha più smesso di correre. È la cronaca di una generazione che ha creduto nella leggerezza, nell’amicizia, nella musica come via di fuga. E che oggi, guardandosi indietro, si chiede se abbia davvero trovato la propria direzione.
Max e Mauro, nel finale, partono verso l’America sognata da ragazzini. Non è solo un viaggio fisico, ma una metafora della ricerca di sé. Lontano da Pavia, lontano dalle certezze, si accorgono che il successo non basta a spiegare la felicità. Forse è questa la lezione più grande che la serie consegna: non c’è Nord, Sud, Ovest o Est che tenga, se non sai dove stai andando davvero.
E così, dopo aver “ucciso l’Uomo Ragno”, il racconto degli 883 continua a camminare sulle proprie gambe, forte di un’identità che va oltre la nostalgia. È una storia che parla di amicizia e di sogni, di musica e di tempo. Ma soprattutto, parla di noi. Di chi, anche dopo trent’anni, ascolta quelle canzoni e si riconosce ancora in un ritornello semplice, ma eterno: “Nord, Sud, Ovest, Est e forse quel che cerco neanche c’è.”
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