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31 Ottobre 2025 - 17:50
Nel Piemonte che spesso tace le sue fragilità, due giovani donne stanno costruendo una rivoluzione silenziosa. Non nei palazzi del potere, ma in una stanza qualunque di una residenza per la cura dei disturbi mentali, dove la vita è scandita da orari, terapie e piccoli gesti quotidiani. Lì, Erica Pizzanelli e Michela Surra, entrambe ventisettenni, hanno acceso una luce che si chiama “A Little Safe Space”, un canale YouTube che non promette guarigioni ma comprensione, che non vende soluzioni ma condivisione. Un luogo dove la fragilità è finalmente accolta, dove chi si sente fuori posto nel mondo può respirare.
Dietro il progetto non c’è un ufficio stampa, ma due esistenze che hanno conosciuto il dolore da vicino. Erica ha attraversato l’anoressia, la bulimia e il binge eating. Michela ha incontrato l’ansia quando era ancora bambina, e a quindici anni il suo corpo è stato ingabbiato da un’anoressia che l’ha portata a un ricovero al Regina Margherita di Torino. Si sono conosciute in una clinica, tra una seduta di gruppo e un esercizio di mindfulness. Da lì, tra confessioni e risate, è nata un’amicizia che ha saputo trasformare la malattia in linguaggio, la sofferenza in possibilità.

Ogni sera, quando la struttura si addormenta e le luci del reparto si spengono, loro due accendono una lampada, piazzano una telecamera e iniziano a parlare. Parlano dei giorni buoni e di quelli che non passano mai, della fame che non è fame, della rabbia che nasconde paura.
“Abbiamo imparato”, dice Michela, “che il sintomo è spesso l’unico modo che il corpo ha per dire qualcosa che la mente non sa esprimere. Ma arriva un momento in cui puoi tradurlo in parole. E lì inizia la cura.”
In quelle parole c’è tutto: la tenerezza, la lucidità, la fatica. E soprattutto c’è la volontà di non restare sole.
A Little Safe Space è un piccolo miracolo quotidiano. È un diario collettivo, dove la malattia mentale smette di essere una diagnosi e torna a essere umanità. È la dimostrazione che anche un canale YouTube, se gestito con onestà, può diventare un atto politico. Perché parlare di salute mentale in Italia, dove ancora oggi il 60% delle persone associa la malattia alla debolezza, significa esporsi, significa esporsi per tutti.
“Vogliamo rendere utile il dolore”, dice Erica. “Se non posso cancellare ciò che ho vissuto, posso almeno trasformarlo in qualcosa che serva a qualcun altro.”
In quella frase c’è il manifesto del loro progetto, che non ha sponsor né strategie di marketing: solo un’etica della verità.
Le due giovani vivono la residenza non come una prigione, ma come una “base sicura”, un approdo temporaneo per ricostruire equilibrio. Ogni giorno è fatto di piccoli riti, di gesti che diventano ancore. Poi, di sera, la creazione: video, montaggi, idee, discussioni.
Parlano anche dei “profili recovery”, di chi mostra il proprio percorso di guarigione sui social, un percorso di vita nel quale spesso emergono dinamiche ancora tipiche del disturbo alimentare, ad esempio mostrando fotografie del proprio corpo emaciato. “Possono essere utili, ma anche pericolosi”, spiega Erica. “Se sei fragile, confrontarti con la vita di un altro può essere devastante.”
Nessuna posa, nessuna ostentazione. Solo verità. La loro. E quella di chi, guardandole, ritrova se stesso.
Tra poco, Erica dovrà lasciare la struttura per trasferirsi in una nuova comunità. La spaventa, ma non la ferma. “Non torno a casa, vado in un posto che non conosco. È un cambiamento necessario, ma difficile.” Il prossimo video parlerà proprio di questo: il distacco, la paura, la possibilità di ricominciare. “Un giorno alla volta, un minuto alla volta.”
È il loro mantra. È il modo in cui hanno imparato a restare vive.
Nel frattempo, i messaggi arrivano. Persone che ringraziano, che raccontano, che dicono: “Grazie, mi avete aiutato a chiedere aiuto.” E in quelle parole c’è il senso profondo di tutto: lo stigma si scioglie solo quando qualcuno trova il coraggio di parlare.
Forse è questo il segreto di Erica e Michela: non la guarigione, ma la condivisione. Non la fine del dolore, ma la scelta di attraversarlo insieme.
In un Paese dove le campagne istituzionali spesso si fermano ai manifesti, loro hanno scelto la realtà. Con una telecamera, una connessione e una verità che non ha paura di mostrarsi. “La confessione è un atto politico: rende il dolore umano e condiviso”, scriveva Anne Sexton. E loro, senza proclami, stanno facendo esattamente questo.
Un piccolo spazio, una grande rivoluzione.
Là dove molti vedono debolezza, loro hanno visto vita. E da quella vita hanno costruito un rifugio, fragile e fortissimo, dove la vulnerabilità non è più un difetto, ma una bandiera.
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