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La tregua con... il "naso lungo"! Netanyahu continua a minacciare. Come può nascere la pace, se la guerra resta l’unico linguaggio?

Il premier israeliano parla alla CBS News e ribadisce la linea dura, mentre i negoziati per una tregua restano appesi a un filo

La tregua

La tregua con... il "naso lungo"! Netanyahu continua a minacciare. Come può nascere la pace, se la guerra resta l’unico linguaggio?

Le parole di Benjamin Netanyahu risuonano come un monito e, per molti, come un ostacolo a qualsiasi prospettiva di pace. In un’intervista alla CBS News, il premier israeliano ha dichiarato: «Se Hamas non accetterà di disarmarsi, si scatenerà l’inferno». Un’espressione netta, che segna ancora una volta la distanza fra le intenzioni diplomatiche e la realtà militare che continua a dominare la scena in Medio Oriente.

Netanyahu ha riconosciuto che una fase di dialogo è in corso, ma ha ribadito la posizione che da mesi guida la politica israeliana verso Gaza: nessuna tregua stabile sarà possibile senza la resa totale di Hamas. «Abbiamo concordato di dare una possibilità alla pace. Portiamo a termine la prima parte e ora diamo la possibilità di fare la seconda», ha aggiunto, lasciando intendere che l’opzione militare rimane pienamente sul tavolo.

Il riferimento è agli ultimi negoziati internazionali promossi da Stati Uniti, Egitto e Qatar, che cercano di costruire una tregua duratura dopo mesi di guerra, devastazione e stallo politico. Ma con toni come quelli usati da Netanyahu, è difficile immaginare che la distensione possa prendere forma. La sua dichiarazione, infatti, ha subito riacceso il dibattito su quanto l’intransigenza del governo israeliano possa compromettere ogni tentativo di mediazione.

L’immagine di un “inferno” evocata dal premier è tanto simbolica quanto concreta. Dopo due anni di scontri e di vittime civili, la situazione nella Striscia di Gaza resta drammatica: migliaia di morti, infrastrutture distrutte e una crisi umanitaria senza precedenti. La comunità internazionale chiede da mesi un cessate il fuoco stabile, ma Israele continua a subordinare ogni ipotesi di tregua alla condizione del disarmo di Hamas, ritenuto responsabile dell’attacco del 7 ottobre 2023 e di anni di terrorismo.

Le dichiarazioni di Netanyahu arrivano in un momento di tensione crescente anche all’interno di Israele. Nelle piazze di Tel Aviv e Gerusalemme si moltiplicano le manifestazioni dei familiari degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza, che chiedono una soluzione negoziata per riportarli a casa. Una parte dell’opinione pubblica chiede al governo di fare un passo indietro, di accettare compromessi e di porre fine a un conflitto che sembra senza sbocco.

Ma il premier non arretra. Al contrario, ribadisce che Israele “non può convivere con Hamas armato”, e che ogni cessate il fuoco senza garanzie concrete sarebbe solo una pausa temporanea prima di nuovi attacchi. Un messaggio diretto tanto all’interno quanto all’estero, in particolare agli alleati americani, ai quali Netanyahu continua a chiedere sostegno politico e militare per mantenere la pressione su Gaza.

Dietro la sua posizione si legge anche la strategia politica interna: mantenere il consenso della destra più dura, evitare di apparire debole dopo mesi di guerra e consolidare la leadership in un momento di forte divisione nazionale. Tuttavia, le parole del premier rischiano di rafforzare la convinzione, diffusa in gran parte della comunità internazionale, che Israele stia rendendo impossibile una tregua reale, alimentando una spirale di violenza da cui nessuno sembra saper uscire.

Le dichiarazioni di Netanyahu hanno suscitato reazioni immediate. Fonti diplomatiche arabe hanno definito le sue parole “una provocazione inutile”, mentre alcuni analisti israeliani le interpretano come una mossa tattica volta a esercitare pressione nei negoziati. Per altri, però, si tratta dell’ennesima dimostrazione che il governo israeliano non è pronto ad accettare un processo di pace vero, ma solo a gestire la guerra in modo controllato.

Il paradosso, osservano diversi commentatori, è che Netanyahu parla di “dare una possibilità alla pace” nello stesso momento in cui evoca l’inferno come alternativa. Una contraddizione che riflette la difficoltà di conciliare sicurezza e diplomazia, paura e speranza, in una regione dove ogni gesto ha un peso politico e simbolico enorme.

Per ora, la tregua resta un miraggio. E le parole del premier israeliano, invece di aprire spiragli, sembrano chiudere ancora una volta la porta del dialogo, lasciando intravedere non la pace, ma un nuovo capitolo di conflitto.

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