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14 Ottobre 2025 - 19:03
Università di Torino sotto accusa: nove accordi con Israele nel mirino dei collettivi
L’Università di Torino aveva promesso una presa di distanza netta, chiara, definitiva. Lo aveva scritto nero su bianco lo scorso 23 settembre, quando — con un ritardo che già allora sapeva di calcolo politico più che di riflessione etica — l’Ateneo aveva dichiarato di volersi “astenersi dal procedere a nuove stipule, rinnovi o mantenimento di accordi con università, istituzioni o attori di altro tipo implicati nelle violazioni dei diritti umani in corso nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania”. Eppure, meno di un mese dopo, tutto è come prima. Anzi, peggio di prima. L’Università che si proclama “etica” e “responsabile” continua a intrattenere ben nove accordi con istituzioni israeliane, molte delle quali direttamente collegate all’apparato militare di Tel Aviv. A denunciarlo è il Collettivo Autorganizzato Universitario di Torino (C.A.U.), che non usa mezzi termini: “Unito è complice del genocidio, dell’occupazione illegittima e delle violazioni continue del diritto internazionale”.
Il collettivo ha diffuso un comunicato durissimo, accompagnato da una mail inviata alle redazioni e da un’azione notturna di attacchinaggio davanti a Palazzo Nuovo. Nella loro denuncia, gli studenti parlano di una “lunga inchiesta”che mette a nudo i rapporti dell’ateneo con università israeliane descritte come “luoghi del sapere in cui la pulizia etnica del popolo palestinese e l’ideologia suprematista sionista si propagano e si legittimano”. Non è uno slogan: i numeri e i nomi ci sono, e fanno male a chi si riempie la bocca di parole come “diritti umani” e “inclusione”.
Sul portale ufficiale degli accordi internazionali dell’ateneo compaiono infatti intese firmate dal Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini”, diretto da Ferdinando Di Cunto, con l’Università di Haifa; dal Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco, con Anna Scomparin come referente, con l’Università di Tel Aviv; dal Dipartimento di Psicologia, con Emanuela Rabaglietti, con l’Academic College at Wingate, frequentato — come ricordano gli studenti — da “numerosi soldati dell’esercito israeliano”. Ma il cuore del problema sta altrove: ben cinque accordi sono siglati con la Ben Gurion University of the Negev, sede dell’Istituto di Sicurezza Nazionale, che collabora direttamente con il Ministero della Difesa e con colossi bellici come Elbit Systems. E proprio accanto al campus universitario di Ben Gurion è in costruzione, con la benedizione del governo, un campus dell’esercito, pensato per “rafforzare le capacità operative delle Forze di Difesa Israeliane”.
Tutto questo avviene mentre a Torino si parla di pace, di “cessate il fuoco”, di diplomazia accademica. E la nuova rettrice Cristina Prandi, che compare essa stessa come direttrice scientifica in uno di questi accordi, prova a spegnere il fuoco con l’acqua tiepida di una commissione “ad hoc” incaricata di “passare in rassegna” gli accordi incriminati. Una mossa che, agli occhi del collettivo, suona come l’ennesimo tentativo di prendere tempo e salvare la faccia. “Non c’è nulla da passare in rassegna”, scrivono gli studenti, “l’Università di Torino deve cessare immediatamente tutti gli accordi con ogni ente israeliano”. Per loro, il problema non è tecnico, ma morale. Tutte le istituzioni israeliane, spiegano, partecipano “alla costruzione e all’estensione del progetto coloniale e violento di occupazione delle terre palestinesi”, e quindi qualsiasi legame con esse equivale a una complicità diretta.
Parole pesanti, ma difficili da ignorare. Perché il C.A.U. non si limita a denunciare, ma chiama in causa l’intero sistema accademico, accusandolo di essere parte integrante del potere che sostiene Israele.
“Le figure coinvolte possiedono tutti i mezzi per capire la situazione. Non ci ascoltano non perché non sappiamo argomentare, ma perché i loro interessi sono perfettamente allineati con quelli che noi attacchiamo”, si legge nel testo.
E ancora: “I loro privilegi economici e simbolici derivano da quella stessa struttura che garantisce a Israele l’impunità totale”.
Il bersaglio non è solo la rettrice o il Senato accademico, ma quella che gli studenti chiamano “l’aristocrazia universitaria”, accusata di trasformare l’università in un’appendice obbediente del potere economico e politico, pronta a indignarsi solo quando conviene e a tornare in silenzio quando l’attenzione pubblica cala.
Il tono è da atto d’accusa, da processo politico. E la conclusione non lascia spazio a interpretazioni: “Blocchiamo e sabotiamo il sistema università con ogni mezzo a nostra disposizione, al grido di ‘Palestina libera dal fiume fino al mare’. Le magnifiche mani della rettrice Prandi e del Senato accademico sono sporche di sangue: non lasceremo che macchino anche le nostre”. Parole che scuotono e che difficilmente resteranno isolate. Perché il comunicato non è un episodio estemporaneo: è l’ennesimo capitolo di una mobilitazione che da mesi anima i cortili di Palazzo Nuovo, le aule, le assemblee. È la voce di chi non accetta più che l’università resti neutrale di fronte a un conflitto che neutrale non è.
Sul fronte opposto, l’Ateneo tace o si trincera dietro la burocrazia. La rettrice si dice pronta ad “ascoltare” e a “valutare”, ma nel frattempo gli accordi restano attivi, i rapporti internazionali proseguono, le firme non vengono ritirate. La sensazione, forte e diffusa tra gli studenti, è che Unito voglia semplicemente aspettare che la tempesta passi, come ha fatto in passato: fingere di sospendere, promettere revisione, e poi, a telecamere spente, tornare a fare ciò che ha sempre fatto. Del resto, come scrive il collettivo, “il sistema che sostiene Israele produce effetti ormai indifendibili agli occhi dei più, ma l’università aspetta soltanto che si calmino le acque per tornare allo schifo di sempre senza dare troppo nell’occhio”.
Il comunicato è una pietra lanciata contro una vetrina impeccabile. E le crepe cominciano a vedersi. Perché dietro le parole altisonanti dei piani alti — “internazionalizzazione”, “ricerca condivisa”, “valori universali” — si nasconde un intreccio di interessi, finanziamenti e opportunismi che nessuna commissione potrà lavare via. L’università di Torino, come molte altre in Europa, si trova davanti a un bivio: scegliere se essere spazio di libertà e coscienza critica, o restare un ingranaggio del blocco politico-economico che oggi legittima, con la scusa della “cooperazione scientifica”, un sistema di apartheid.
Gli studenti del C.A.U. hanno scelto da che parte stare. E la loro voce, per quanto disturbante, dice una verità che pesa più di qualsiasi protocollo diplomatico: l’università che si vanta di insegnare i diritti umani non può, nello stesso tempo, collaborare con chi li calpesta. E se qualcuno pensa che basti una commissione per coprire la contraddizione, dovrà presto fare i conti con un movimento che promette di non fermarsi finché, nelle parole del collettivo, “le mani insanguinate della governance universitaria non saranno costrette a lasciare la presa”.
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